Vaticano, le dimissioni di padre Zollner dalla commissione anti abusi sono un campanello d’allarme

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Un fantasma si aggira per il palazzo apostolico: l’ombra di un gesuita maestro di mosaici, benvoluto da tre pontefici, che è stato seriamente accusato di molteplici abusi. E c’è un silenzioso osservatore, gesuita anch’egli, che chiede trasparenza nella lotta contro le manipolazioni psico-sessuali ai danni delle persone fragili.
E’ una storia che non si può archiviare.

L’improvviso ricovero di papa Francesco al Gemelli, fine marzo scorso, e poi il susseguirsi delle cerimonie pasquali hanno oscurato in quei giorni un evento cruciale: le dimissioni del gesuita Hans Zollner dalla Commissione pontificia per la tutela dei minori, che lui stesso aveva contribuito a fondare.

Nel mondo vaticano padre Zollner è stato per quasi un decennio l’instancabile promotore di iniziative per spingere gli episcopati a non ignorare la gravità del fenomeno degli abusi sessuali e a comprendere la necessità di organizzare strutture per affrontare i problemi che ne derivano. Dall’ascolto delle vittime all’importanza di indagare sul fenomeno, all’urgenza di curare le ferite derivanti dalle violenze.

Zollner, direttore dell’Istituto di Antropologia dell’università Gregoriana, benché in modo riservato, è stato elemento propulsore di quella Commissione per la tutela dei minori che Francesco ha creato, affidandone la guida al cardinale statunitense Sean O’Malley, e che con la riforma della Curia voluta dal papa è stata inserita addirittura nella struttura del Dicastero per la Dottrina della fede.

Quando si è sparsa la notizia, un comunicato della commissione ha sottolineato espressamente il contributo di Zollner nell’attuare molti dei suoi progetti e programmi, culminati nel vertice mondiale dei presidenti delle conferenze episcopali convocato da Francesco nel febbraio 2019. Il religioso è stato definito “ambasciatore della salvaguardia” dei minori nel mondo.

Il neo della vicenda sta, però, nel fatto che Zollner non è andato in pensione, ma si è dimesso esprimendo critiche precise.

A suo parere non è chiaro il rapporto tra la commissione e il Dicastero per la Dottrina della fede. Non è chiaro in che maniera vengano selezionati i membri che ne fanno parte e quali siano rispettivamente i loro ruoli. Non è chiaro nemmeno, aggiunge il religioso, in che maniera vengano gestiti i fondi della commissione. La critica più rilevante, tuttavia, riguarda la mancanza di “trasparenza sulle modalità di decisione all’interno della commissione”. Troppo spesso, rileva Zollner, “ai membri sono state fornite informazioni insufficienti e comunicazioni vaghe riguardo al modo in cui sono state prese alcune decisioni”. Parole pesanti. E il pensiero corre ad una situazione eclatante, che finora in Vaticano non ha trovato spiegazioni e che resta un interrogativo per l’opinione pubblica, specie cattolica: il caso Rupnik.

Marko Rupnik, gesuita, è un artista (autore di mosaici) e teologo sloveno molto apprezzato in Vaticano, beniamino delle alte gerarchie ecclesiastiche durante tre pontificati. In gran parte sua è la decorazione musiva della cappella “Redemptoris Mater” nel palazzo apostolico, dove si predicano gli esercizi spirituali alla presenza del pontefice durante la quaresima. Suoi mosaici si trovano in basiliche, chiese e santuari a Fatima, San Giovanni Rotondo, Lourdes, Madrid, Santo Domingo, Cracovia, Washington e molti altri luoghi ancora. Un “artista e predicatore di corte”, lo si sarebbe definito nel Rinascimento.

Negli ultimi anni però si sono moltiplicate nei suoi confronti denunce di abusi sessuali (con adulti). Casi precisi, che la Congregazione per la Dottrina della fede non ha rigettato come falsi ma ha considerato prescritti.

C’è un episodio, tuttavia, assolutamente provato dalle commissioni ecclesiastiche, che per la Chiesa cattolica assume le caratteristiche di un caso di gravità suprema: l’aver assolto in confessione una donna, da lui psicologicamente manipolata e abusata, con la quale aveva rapporti sessuali. Qui per la dottrina canonica cattolica non si tratta più di un reato/peccato ma di un crimine/sacrilegio, perché il potere di assolvere – aprire e chiudere simbolicamente l’accesso al regno dei cieli – è un sacramento. Per questo la Congregazione per la Dottrina della fede, al termine di minuziose indagini, ha emesso a suo tempo un decreto di scomunica automatico (latae sententiae). Il latino è una lingua splendida e concisa. Latae sententiae significa che, nel momento stesso in cui si commette il crimine, è come se già bussassero all’uscio del colpevole e la sentenza gli venisse “portata”. Solo che la scomunica comminata a Rupnik (maggio 2020) aveva bisogno della conferma papale, che non è mai venuta. Nell’arco di poche settimane la scomunica è stata annullata. Sulle motivazioni non c’è stata alcuna trasparenza.

Nel frattempo la Compagnia di Gesù ha imposto una serie di restrizioni all’attività pubblica di Rupnik e poiché sul finire del 2022 si sono infittite le voci sul suo comportamento, il delegato incaricato di seguire le indagini su di lui, padre Johan Verschueren, ha esortato chiunque fosse stato ferito a farsi avanti. Nel febbraio scorso, Repubblica ha rivelato che i gesuiti avevano raccolto un dossier di 150 pagine con ripetute testimonianze di “violenza psicologica, abuso di coscienza, abuso nell’ambito sessuale e affettivo, abuso spirituale” commessi per decenni dal 1985 al 2018.

Tutto questo non può cadere nel dimenticatoio. Né può essere archiviata la strana vicenda della scomunica per l’assoluzione sacrilega miracolosamente cancellata. Papa Francesco in una recente intervista all’Associated Press ha sottolineato che ”tutti siamo i peccatori. Però il delitto te lo perdono sì, però paghi e ripari”. Nel caso Rupnik non si è visto. Rupnik non ha ricevuto nessuna pena e questo – ormai è noto – è l’ingiustizia peggiore che si può riservare alle vittime. Perciò l’attenzione si rivolge al palazzo apostolico.

Francesco è il pontefice che nel campo degli abusi maggiormente è intervenuto per fare pulizia. Ha allontanato tanti vescovi colpevoli di insabbiamento, ha cacciato due porporati dal collegio cardinalizio, ha processato canonicamente ed espulso dallo stato clericale un cardinale (Mc Carrick) ed un ambasciatore vaticano (il nunzio Wesolowski), non ha coperto con l’immunità un cardinale ciato in tribunale in patria (Pell), ha reso stringenti le procedure per indagare sui colpevoli di alto livello. E per di più deve fare i conti con la maggioranza delle conferenze episcopali, che silenziosamente sabotano e non hanno voglia di aprire gli armadi con gli scheletri.

Per questo le dimissioni di padre Zollner dalla commissione anti-abusi sono un campanello di allarme. Pochi giorni fa, ricevendo in udienza la commissione, Francesco ha chiesto che vi sia un “rapporto annuale su ciò che ritenete stia funzionando bene e su ciò che non funziona, in modo da poter apportare le opportune modifiche”. Può essere un segnale.