Pubblichiamo l’omelia che il Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, ha pronunciato giovedì 25 maggio in occasione della Santa Messa concelebrata nella Basilica di San Pietro.
Questa celebrazione che ci vede riuniti intorno a Pietro, accolti e sostenuti dalla presenza di colui che presiede nella comunione la nostra comunione, ci aiuta a contemplare cos’è la Chiesa, ci offre un’icona della sua realtà umana e spirituale, che non è mai idealizzata o virtuale. Veniamo tutti dalle nostre tante Emmaus e portiamo con noi la tristezza di quei pellegrini con il cuore gonfio di disillusione, ferito, aggressivo e amaro perché le speranze erano finite. Tra questi, il cui volto e vicenda portiamo nel cuore, ricordo l’angoscia che grava nell’anima del popolo ucraino che anela alla pace e quanti piangono qualcuno che non è tornato più, inghiottito dalla macchina di morte fratricida che è la guerra. Il Signore continua a farsi pellegrino (lui sì e noi no?), non si stanca di cercarci e spinge a metterci per strada per liberare da un destino senza comunità, per scaldare cuori spenti e farli ardere di amore e di speranza. Il Signore non smette di donarci il suo Spirito perché la vita non si chiuda negli orizzonti mediocri di Emmaus, magari a discutere tutti i giorni del passato ma senza futuro, fuori dalla storia. Essere qui, al termine di quasi due anni di Cammino sinodale, è una grande emozione che ci sintonizza di nuovo con i fratelli e le sorelle e con questa Madre Chiesa che tutti ci accoglie e continua a generarci a figli. Come i due di Emmaus anche noi troviamo Pietro che conferma la nostra fede. Troviamo un popolo grande, che accoglie tutte le etnie perché popolo santo di Dio. Un popolo ma sempre una famiglia che ci chiede di vivere con lo stile e i sentimenti della famiglia, non da funzionari anonimi, anche zelanti ma con il cuore e gli affetti da un’altra parte o ridotti solo al proprio protagonismo o ruolo. Questa è la casa di un Padre che ricorda sempre che tutto quello che è suo è nostro, e anche viceversa, che tutto ciò che hai diventa davvero tuo proprio perché insieme. Solo un cuore largo e cattolico ci aiuta da misure avare e paurose e a scoprire e riscoprire il mondo senza confini. Il mondo inizia sempre da ogni persona, da un incontro, scoprendola nella sua grandezza e unicità, amandola perché non è un’isola e non lo sia. Quanto c’è bisogno di amore gratuito, vero e non virtuale, legame umano e affettivo! È il legame che ci ha unito e ci unisce ai “tutti” per i quali Gesù spezza il suo pane. Qui, oggi, lo contempliamo in pienezza, ma avviene molto più di quello che pensiamo nel nostro camminare insieme, cioè nella sinodalità, frutto e fonte di tanto concreto amore.
Il Libro degli Atti documenta un passaggio cruciale nella vita di Paolo. Gli era stata appena notificata l’accusa formulata dalle autorità giudaiche. I suoi accusatori litigano tra loro e l’apostolo parla senza alcuna sottomissione, con scaltrezza evangelica, conoscendo la cultura e le contraddizioni dei suoi accusatori. Paolo in fondo è solo un prigioniero e deve sottoporsi al processo delle autorità romane. Ma il cammino nella storia è sempre pieno di sorprese se siamo docili alla Parola, che non smette di innalzare gli umili e abbassare i superbi, di trasformare il deserto in un giardino e un peccatore in una persona libera di non farlo più e visitata nella sua casa che diventa piena della salvezza. Durante la notte ascolta il Signore che gli parla. Il Signore continua a parlare, se lo ascoltiamo! «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11). Paolo a Gerusalemme aveva testimoniato la risurrezione di Gesù di Nazareth. “Gesù è il Cristo”, “è risorto”, come i due di Emmaus. Paolo parte da Gerusalemme in catene, ma con una parola chiara nel cuore e sulla bocca che è la sua libertà. «Coraggio!». È l’espressione di Dio, che conosce la fatica della testimonianza. Vivere per il Vangelo ci fa confrontare con il nostro limite, con la durezza del mondo, con la forza del male che i cristiani conoscono perché amano e non aspettano qualche pandemia per combatterlo. “Coraggio!”, dice il Signore a Paolo. È la carezza di Dio, la sua compagnia, la sua cura per ogni credente, ma anche per ogni uomo affaticato ed oppresso. “Coraggio!” è anche lo stimolo a trovare nuove vie di trasmissione della fede, ad annunciare il Vangelo in ogni circostanza, a non aver paura di prendere il largo. Paolo conosceva Tarso in Cilicia, dove era nato e cresciuto, e Gerusalemme e la Palestina, dove aveva studiato. Ma poi è chiamato a proiettarsi ben più lontano. È obbligato a farlo da un processo ingiusto e in catene. Trasforma le difficoltà in opportunità. È davvero libero da ogni catena e da quel veleno pericoloso che è il pessimismo, che può essere accompagnato da giudizi intelligenti ma che diventa sempre indifferenza. Tutto può cambiare e niente è impossibile a chi crede! Roma sarà la prossima tappa, nonché l’epilogo, della sua esperienza di apostolo per vocazione (cfr. Rm 1,1). Dietro questo avviso divino c’è un grande messaggio di speranza: il Vangelo non ha confini. E chi è pieno del Vangelo è libero dai confini, non perché dilata il suo io come avviene pericolosamente nel mondo, ma perché ama e non ha paura di cercare nuove terre, anche quelle non ancora esplorate da nessuno, anche quelle che potrebbero dimostrarsi ostili. Il Vangelo ci fa sentire a casa ovunque e tutto è reso da lui casa. Gesù aveva pregato anche per la buona riuscita della sua missione. Il cosiddetto “Discorso sacerdotale”, che abbiamo ascoltato nel brano odierno del Vangelo di Giovanni (Gv 17), ne custodisce un frammento. «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola» (Gv 17,20). La “parola” è quella affidata a noi discepoli di ogni ora, noi dell’ultima. “Quelli che crederanno in Gesù mediante la loro parola” sono le donne e gli uomini, i bambini, i giovani e gli adulti delle nostre comunità, quanti incontrano il Risorto nella testimonianza di un fratello o di una sorella. La “gloria” di cui parla Gesù nel Vangelo di Giovanni risplende proprio nella comunione tra credenti: «La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa» (Gv 17,22). È il nostro impegno, è la fatica benedetta di questi anni del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia: quella di camminare insieme, al passo con il Risorto e in dialogo con il mondo. All’inizio del nostro percorso sinodale Papa Francesco disse: «Siete venuti da tante strade e Chiese, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, e sono certo che lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità» (9 ottobre 2021). Non c’è comunione senza l’azione dello Spirito e la nostra docilità a lasciarci guidare dallo Spirito e non dai piccoli interessi, dagli affanni di Marta, dai protagonismi che riempiono di orgoglio, dai programmi vuoti di amore che ci rendono sicuri ma lontani dai pellegrini.
Coraggio e unità sono i due binari del percorso che la Parola di Dio ci indica oggi attraverso la liturgia eucaristica: il coraggio che solo l’amore può generare in noi, per ascoltare, discernere e decidere per Dio e per il bene della Chiesa; e l’unità. Cioè pensarsi insieme, a tutti i costi, non uguali, anzi ancora più diversi perché finalmente e liberamente se stessi perché in relazione gli uni agli altri. L’unità è santa e non a caso è sempre legata alla pace, perché la guerra inizia quando si accetta la divisione. L’unità ha sempre al centro Gesù, dietro cui camminare e da amare nella comunità e nei suoi membri di diritto che sono i suoi fratelli più piccoli, i poveri, i sofferenti, i forestieri, i nudi, gli assetati di vita e di speranza, figli affamati di amore e di pane. Perché tutti siano una sola cosa nell’amore tanto che “Tu sei in me e io in te”, noi in loro, nella comunione di amore di Dio, “perché il mondo creda che tu mi hai mandato”. Da come amiamo e ci amiamo ci riconoscono. Contempliamo già la sua gloria, perché il suo amore è in noi e noi con Lui, più forte del nostro peccato. Presso la Cattedra di Pietro rinnoviamo questo desiderio che ci riguarda tutti nelle diverse e tutte complementari responsabilità: essere Pastori secondo il cuore di Dio (cfr. Ger 3,15), coraggiosi e uniti nell’annuncio della lieta novella “il Signore è veramente risorto!”.