La Domenica delle Palme nell’arte, prefigurazione di salvezza

Vatican News

Nel mondo cristiano la rappresentazione nell’arte dell’ingresso a Gerusalemme ha radicato in tempi precoci per il suo significato fondamentale, il riconoscimento della maestà di Cristo, che gli artisti sono riusciti a evocare in modo potente. Sullo sfondo un paesaggio vivace e la grande città cinta di mura che sbarra l’orizzonte. Intorno figure in movimento, concitate, fanno festa ma sembrano lasciare isolato il Messia, che guarda di fronte a sé, lontano, prefigurando l’imminente Passione

Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano

Tutti i Vangeli raccontano in modo concorde di Gesù che entra a Gerusalemme a cavallo di un’asina o di un puledro tra figure festanti che agitano dei rami  tra le mani. Ogni evangelista ha raccontato questo episodio con particolari precisi (Matteo 21, 6-9; Marco 11, 4-11; Luca 19, 32-38; Giovanni 12, 14-16) che ritroviamo tradotti per immagini nell’arte a partire dalla seconda metà del IV secolo. È una scena che si sviluppa tutta di profilo come a voler dare risalto al movimento dell’incedere di Cristo e che riconosciamo molto simile a tante immagini precedenti, legate all’arrivo solenne dell’imperatore in città che si chiama Adventus. L’iconografia cristiana prende in prestito quella classica della Roma imperiale e la porge a chi guarda, trasformata con simboli e significati nuovi.  

Nell’immagine un Cristo solo in mezzo alla folla festante

La Domenica delle Palme è una festività struggente: è l’ultimo momento di gioia prima della passione.  Gli occhi di Gesù guardano lontano, mentre cammina tra la folla festante e inconsapevole, e si prepara a ciò che sta per accadere. 
Anche nell’arte, come nei Vangeli, l’impressione suggerita dalla figura di Cristo è quella della distanza, della solitudine. Un gorgo di silenzio mentre intorno c’è chiasso. 
Questa immagine è rappresentata con frequenza soprattutto sui sarcofagi, con altre scene bibliche del Nuovo e Antico Testamento, e si concentra soprattutto alla metà del IV secolo, ma riscuote fortuna sempre e la ritroviamo un po’ in tutte le epoche, raggiungendo il suo apice estetico ed espressivo con Giotto e Pietro Lorenzetti. 

Giotto, Ingresso a Gerusalemme, 1303-1305 circa, affresco, 200×185 cm, Cappella degli Scrovegni, Padova

Gesù appare giovane, vestito di tunica e pallio. La mano è sollevata nel gesto dell’adlocutio, della parola. Cavalca il dorso di un’asina con accanto, ma non sempre, il giovane puledro menzionato dai Vangeli. Una figura un po’ più piccola sta proprio sotto le zampe dell’animale a stendere un mantello. Intorno, molti particolari e ognuno di essi è riconducibile a un significato simbolico ben preciso.

Fronte di sarcofago infantile a doppio registro con clipeo centrale con busto del defunto. Registro superiore: ingresso in Gerusalemme, moltiplicazione dei pani, passaggio del Mar Rosso; registro inferiore: Pietro batte la rupe, cattura di Pietro, predizione della negazione di Pietro, adorazione dei Magi, Daniele fra i leoni, Adamo e Eva ai lati dell’albero, sacrificio di Isacco, Noè riceve la colomba, 325 – 350 d.C., marmo bianco, cm 40 x 115, Museo Pio Cristiano

Simboli antichi

Gli apostoli bardano la cavalcatura con i loro mantelli ed esprimono così la loro piena adesione e comunione con il Messia. L’asina soppianta i nobili cavalli che avevano caratterizzato i dignitari della Roma pagana e rappresenta il regno della mansuetudine proposto dal Cristo. È un animale da sempre accostato a metafore contraddittorie, anche protagonista – si ricordi ad esempio il celebre Asino d’oro di Apuleio, e nei tempi moderni la favola di Pinocchio – di storie che raccontano cammini e trasformazioni attraverso mondi oscuri e irrazionali per giungere a quelli luminosi della conoscenza.

Fronte di sarcofago a sfondo architettonico (tipo “di Bethesda”): guarigione di ciechi, miracolo dell’emorroissa, miracolo della piscina probatica (su due registri), ingresso di Cristo a Gerusalemme ca. 366-384 d.C., marmo bianco italico, cm 58 x 228 x 10, Museo Pio Cristiano

Lo stesso è per la palma, emblema di bellezza e poi cristiano di martirio e di vittoria celeste. In ambiente mediterraneo, dove la palma non cresceva, è stato adottato l’ulivo, simbolo centrale insieme alla vite e al grano. Tuttavia, bisogna notare che solo Giovanni parla esplicitamente della palma, mentre gli altri Vangeli non fanno riferimento a una pianta specifica, ma si limitano a dire che si tratta di fronde tagliate dagli alberi.
La porta di Gerusalemme, così ben caratterizzata ed enfatizzata, mette l’accento sul significato fondamentale di passaggio, varcando un limite che chiude e protegge la città, simbolo di ordine e ragione, il logos, di contro alla campagna come caos.

Fronte di sarcofago a fregio continuo: creazione di Adamo e Eva, guarigione del paralitico, miracolo di Cana, ingresso in Gerusalemme, guarigione del cieco, visione di Ezechiele, risurrezione di Lazzaro, 330 – 340, marmo bianco, cm 60 x 220, Museo Pio Cristiano ©Musei Vaticani

La parabola di Zaccheo

In questa iconografia così narrativa e apparentemente semplice, nella sua affollata complessità, c’è un particolare singolare. Arrampicato su un albero, in alto, c’è un uomo. Il pensiero immediato è che si tratti di una figura anonima e sia lì per tagliare delle foglie dall’albero per onorare il Signore. Ed è così, ma la mente corre ad un’altra immagine identica, spesso raffigurata nell’arte, che è quella di Zaccheo. Il pubblicano, odiato da tutti, per vedere Gesù tra la folla – era piccolo di statura – si arrampica su un sicomoro (Luca 19, 1-10). Gesù lo vede e gli cambia la vita. Sembrerebbe riduttivo parlare di prestito iconografico, piuttosto si può parlare di consapevolezza, da parte degli artisti, che si sta parlando di salvezza, sia per Zaccheo, sia per chi riconosce in Cristo il Messia alle porte di Gerusalemme. 

Niels Larsen Stevns, Gesù e Zaccheo, 1913, Randers Kunstmuseum