Naufragio a Cutro, il dolore del Papa: “I viaggi della speranza non siano viaggi di morte”

Vatican News

All’Angelus, Francesco, come la scorsa domenica 26 febbraio, giorno della tragedia sulle coste calabresi, torna a lanciare un appello: “Fermare i trafficanti. Le acque del Mediterraneo non siano più insanguinate da tali incidenti”. Nella città di Crotone, intanto, sono giunti i familiari per i riconoscimenti al Palamilone, dove è aperta la camera ardente. I cittadini si recano sul posto a portare fiori e sostare in silenzio. Nel pomeriggio, Via Crucis sulla spiaggia organizzata dall’Arcidiocesi

Salvatore Cernuzio – Inviato a Crotone

“I viaggi della speranza non si trasformino più in viaggi della morte. Le limpide acque del Mediterraneo non siano più insanguinate da tali tragici incidenti”.

È un dolore profondo quello a cui Papa Francesco dà voce dalla finestra del Palazzo Apostolico al termine dell’Angelus per il dramma al quale, per primo, ha richiamato l’attenzione del mondo una settimana fa: il naufragio del 26 febbraio al largo delle coste di Steccato di Cutro di un barcone proveniente dalla Turchia che ha visto la morte di 71 persone. Numero che purtroppo è aumentato di giorno in giorno in questa settimana, con il ritrovamento di corpi nelle acque diCutro o sulle rive di spiagge vicine, come quella di Botricello. Due i cadaveri recuperati ieri: entrambi minorenni, un bambino di 2 anni e mezzo e un ragazzo di 12-13 anni. Questa mattina, un nuovo cadavere restituito dall’acqua.

Prego per le numerose vittime del naufragio e per i loro familiari e quanti sono sopravvissuti

Gratitudine alla popolazione e alle istituzioni 

Francesco manifesta il suo apprezzamento e la sua gratitudine alla popolazione locale e alle istituzioni “per la solidarietà e l’accoglienza verso questi nostri fratelli e sorelle”. Rinnova quindi l’appello rivolto “a tutti” affinché “non si ripetano più simili tragedie”.  

I trafficanti di esseri umani siano fermati, non continuino a disporre della vita di tanti innocenti.

Capire e piangere

Dal Pontefice anche la pressante richiesta di non trasformare questi viaggi cosiddetti “della speranza” in traversate verso la morte. “Le limpide acque del Mediterraneo non siano più insanguinate da tali tragici incidenti”, ribadisce. “Che il Signore ci dia la forza di capire e di piangere”, aggiunge fermandosi per qualche istante in silenzio, a capo chino, visibilmente commosso.

Ed in effetti è una città che cerca di capire e che piange da giorni, quella di Crotone, per questa tragedia – l’ennesima delle migrazioni – che sta interpellando la comunità internazionale e per la quale sono in corso le indagini per chiarire le dinamiche.

L’appello del Papa del 26 febbraio

“Stamattina ho saputo con dolore del naufragio avvenuto sulla costa calabrese, presso Crotone. Già sono stati recuperati quaranta morti, tra cui molti bambini. Prego per ognuno di loro, per i dispersi e per gli altri migranti sopravvissuti. Ringrazio quanti hanno portato soccorso e coloro che stanno dando accoglienza”, aveva detto il Papa nell’Angelus di domenica scorsa, poche ore dopo il naufragio, prima di ritirarsi nel pomeriggio per gli Esercizi spirituali di Quaresima. Oggi, quindi, un nuovo appello.

L’umanità della città di Crotone

Parole che giungono in giornate in cui soprattutto la gente comune sta dando prova di grande umanità, empatia e accoglienza. Lo si vede nel continuo via vai dal Palamilone, il palazzetto dello sport dove il primo marzo scorso è stata aperta la camera ardente per le 66 bare lì allineate, tra cui quelle bianche dei bambini, anche neonati. Nessuno passa fuori dal cancello verde del palasport, dove sono affissi da giorni cartelli, striscioni, peluche, senza farsi prima il segno della croce. C’è chi ferma la macchina per farlo e soffermarsi per qualche istante in silenzio. Fino a tarda sera, ieri, non si è interrotto il flusso di cittadini venuti a portare un mazzo di fiori o un lumino rosso in ricordo di queste vite spezzate. “Nessun uomo sarà mai un oggetto”, recita un cartello bianco. Tanti alunni delle scuole crotonesi sono venuti con i loro insegnanti e genitori a vedere con i propri occhi questa tragedia che ha coinvolto e sconvolto la loro città. “È importante che sappiano, che capiscano e che così riflettano per il futuro”, dice Antonella, docente.

Lavoro senza sosta al Palamilone

L’accesso al Palamilone è stato chiuso al pubblico. All’interno da tre giorni, insieme a volontari della Croce Rossa e della Protezione civile, ci sono i parenti delle vittime che arrivano scaglionati per i riconoscimenti. La maggior parte sono afghani, già emigrati anni fa in Germania, Francia, Svezia o addirittura Stati Uniti e Australia. Oppure nel nord Italia dove studiano e hanno trovato un lavoro. “Saranno venuti 40-50 familiari in questi giorni”, spiega una giovane crocerossina in divisa, “e qualcuno deve arrivare”. In mano ha caffè e buste di cornetti: vengono portati a familiari, volontari, poliziotti.

I riconoscimenti

Nessuno dei parenti – ospitati in due alberghi di Crotone – ha visto i corpi dei morti: tutto avviene tramite le fotografie mostrate dalla Polizia Scientifica. Una donna anziana, questa mattina, con il velo, è stata la prima ad entrare. Uscendo è scoppiata in lacrime ed ha abbracciato una volontaria. Fa parte del gruppo di varie associazioni della comunità afgana hazara a Roma, che si sono precipitati a Crotone nei giorni scorsi e che stanno svolgendo un lavoro ininterrotto: “Lavoro di tutti i tipi: interpreti, assistenza, sostegno anche spirituale e psicologico”, spiega Dawood. Ieri sera erano sulla spiaggia di Steccato di Cutro, dove oggi pomeriggio alle 15 si svolgerà una Via Crucis organizzata dall’Arcidiocesi di Crotone – Santa Severina, dove si pregherà dietro alla croce realizzata con i resti dipinti di blu e di rosso del barcone sfracellatosi su una secca.

La voce dei familiari

Tra donne e uomini, giovani e anziani, c’è Abdul, fuggito nel 2005 da un villaggio a 30 km da Kabul. Prima ha fatto tappa in Italia, poi è andato in Germania. Ha un giubbotto giallo leggero che non lo ripara dal freddo. È atterrato all’aeroporto di Lamezia Terme e dice che è “stanchissimo”. Ha riconosciuto una sorella, il cognato e due nipoti. Tutti morti. Un altro nipote “è vivo”, altri quattro parenti ancora dispersi. Lui, dice in italiano stentato, dice di temere che sono tra i naufraghi rimasti schiacciati sotto il peso del motore del barcone.  

Muslim, 16 anni, che voleva ricominciare a vivere

Sulle scale, a inviare un messaggio vocale leggendo il foglio rilasciato dalla Questura, c’è Assani, 30 anni circa: “No foto, no video”, chiede. Dice che per raccontare la sua storia e quella della sua famiglia ci vorrebbe “un giorno intero”. “Siamo afghani e gli afghani muoiono da tutte le parti, a cominciare dal nostro Paese. Non abbiamo un posto sicuro né in mare, né in terra”. Venuto da Tivoli, questa mattina ha dovuto riconoscere il cugino di 16 anni, Muslim. I genitori del ragazzo sono in Iran con un permesso temporaneo come rifugiati. Muslim non ha potuto raggiungerli e la mamma e il papà lo hanno sconsigliato. “Studiava prima, non ne poteva più di vivere in quel modo”. L’Italia non era la sua meta, era aperto a qualsiasi possibilità: “Voleva ricominciare la vita in qualsiasi posto”, dice il cugino. È finito in fondo al mare insieme ad altri suoi coetanei. Assani non ha voluto neanche vedere la sua bara bianca, seppure fosse a pochi metri. “Inutile vedere quel pezzo di legno, è come un cancro che ti consuma”, afferma.  

A fianco c’è Nebi: non parla italiano e mostra la foto sullo smartphone di sua zia, 38 anni, afghana anche lei. Il marito e la figlia sono ancora dispersi. Perché sono voluti partire? “Just to live”, risponde secco il ragazzo. “Solo per vivere”.

L’appello dell’Ucoii

La questione che preme tutti al momento è il rimpatrio delle salme. Per coloro che non avranno questa possibilità è giunto ieri l’appello di Yassine Lafram, presidente dell’Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia): “Faccio un appello ai sindaci delle città che dispongono di un cimitero islamico di dare la propria disponibilità ad accogliere le salme delle vittime del naufragio, che sono per lo più musulmani. Abbiamo il dovere di dare una degna sepoltura e un nome a queste vittime della nostra indifferenza. Se ci siamo dimenticati di loro da vivi allora non dimentichiamoci di loro da morti”.