Il prefetto del dicastero per le Chiese orientali parla del viaggio nelle zone terremotate e invita a usare la R.O.A.C.O (Riunione Opere Aiuto Chiese Orientali) per canalizzare gli aiuti in maniera sicura ed efficace. Sulla guerra in Ucraina, dove è stato nunzio fino al 2020, il presule denuncia la debolezza delle Nazioni Unite. Il dialogo non deve essere frutto di una politica elitaria o basarsi sul tornaconto ma deve farsi interprete del sentimento popolare e del bene comune
Antonella Palermo – Città del Vaticano
Si è conclusa la visita del prefetto del dicastero per le Chiese Orientali, l’arcivescovo Claudio Gugerotti, in Siria e Turchia, stabilita d’intesa con le Nunziature Apostoliche dei due Paesi dopo il terribile sisma che li ha colpiti. In particolare, durante le due giornate trascorse ad Aleppo, sabato 18 e domenica 19, è stato possibile incontrare numerose famiglie che hanno trovato accoglienza temporanea in spazi gestiti dalle comunità religiose, cristiane e musulmane, o in edifici pubblici come una scuola. Diversi sono stati i momenti particolarmente intensi vissuti con mamme, disabili, anziani soli.
Oltre alla realtà di Aleppo – dove è stata attivata una commissione di emergenza che coinvolge tutte le confessioni cristiane della città – è stato possibile approfondire quelle del litorale e di Lattaquie in particolare, e anche della provincia di Idlib. D’intesa con la Nunziatura Apostolica a Damasco, la cui attività è instancabile ed essenziale per la concertazione degli interventi, si lavorerà per dare sostegno alla Commissione Episcopale per il Servizio della Carità, con inserimento di ulteriori figure di collaboratori qualificati. Ecco l’intervista a monsignor Claudio Gugerotti:
Eccellenza, quale il suo stato d’animo al rientro dalla visita nella Turchia e nella Siria terremotate?
La sensazione che ho avuto è che siamo ancora in mezzo al dramma perché non è affatto detto che le scosse siano finite. La gente è abituata alle difficoltà da sempre, tende a lasciare le case perché è indispensabile, altrimenti rischia la vita, poi ci torna ma deve scappare immediatamente appena arriva un’altra scossa forte. È questa specie di stress emotivo che colpisce molto, legato poi alle differenti situazioni dei due Paesi. In Turchia la situazione è più delimitata, probabilmente avremo paura quando sapremo quanti sono veramente i morti, perché noi abbiamo il numero dei morti ritrovati, ma è sotto questi edifici assolutamente inconsistenti, con un cemento fatto in maniera approssimativa, che ci sono decine di migliaia di cadaveri. La Turchia dispone degli aiuti internazionali, li centralizza attraverso una istituzione governativa che rende l’intervento da una parte più coordinato e dall’altra anche più difficile da gestire. Diversa la situazione della Siria. È un Paese distrutto. Dodici anni di guerra, e soprattutto i risultati di certi aspetti delle sanzioni, hanno reso la gente miserabile.
Io sono stato in Siria 25 anni fa, non la riconosco, è terzo mondo. Gli stipendi sono pressoché irrisori, non c’è lavoro, c’è una emigrazione enorme, le città sono distrutte dai bombardamenti; io non riesco a vedere la differenza tra il bombardamento e la caduta per causa del terremoto. La gente è sfiorita, non ha più speranza. Aiuta un po’ di fatalismo orientale per cui si dice ‘va bene, è capitato, speriamo in Dio’: lo dicono i musulmani, lo dicono i cristiani con la stessa formula in arabo. L’attuale situazione di guerra e di sanzioni rende molto difficile aiutarli: ci vuole molto tempo per avere i visti, la trasmissione di denaro è impossibile, poi ci sono zone che sono sotto diversi controlli. E ci sono alcuni gruppi che non passano nulla, se non a quelli che decidono loro. E devo dire che anche molte nazioni europee passano attraverso i gruppi dissidenti sul posto, perché hanno una posizione politica più affine, ma non verificano dove vanno questi soldi e a chi. Se non ci fossero alcuni francescani che si occupano, con delle giravolte mentali e una fantasia infinita che solo gli orientali hanno, di trovare dei canali alternativi più o meno legali, la gente non avrebbe nulla. Io sono andato per portare prima di tutto la benedizione, la vicinanza e l’affetto del Santo Padre, ma anche per fare in modo di aiutarli concretamente e di dire alle organizzazioni cosa non devono fare per mandare gli aiuti.
Di quali iniziative si è fatto portatore?
Noi abbiamo qui la ROACO, che riunisce le principali agenzie umanitarie, soprattutto quelle che si occupano di più del mondo orientale. Loro sono molto competenti, sanno come muoversi, domani io avrò da remoto un incontro con tutte queste organizzazioni per dire quello che i vescovi ci hanno fatto capire in modo da scegliere la via giusta. Anche il dicastero delle Chiese orientali ha messo a disposizione alcuni strumenti per sbloccare quello che poteva essere altrimenti impercorribile, e questo vale per la Siria e in parte anche per la Turchia. Noi attiveremo un conto, che già esiste, per cui gli aiuti verranno depositati su questo conto. Poi vedremo concretamente noi come trasferirli sul posto, perché altrimenti le banche si rifiutano. Non hanno un interlocutore sul posto, in Libano c’è peraltro lo sciopero delle banche, per cui dove li prendono i soldi? Bisognerebbe andare con la valigetta, ma ci sono dei limiti di denaro da portare con sé, poi è pericolosissimo poiché lo sciacallaggio è potentissimo. Noi dobbiamo, come collaboratori del Santo Padre, mettere in grado il maggior numero possibile di persone che vogliono aiutare questi Paesi di farlo concretamente e in maniera sicura senza che i soldi spariscano strada facendo. Naturalmente poi è commovente vedere come uno che rappresenta il Santo Padre sia accolto da tutti con una tale commozione, una consolazione… sono andato in una moschea dove ospitavano i rifugiati, per esempio.
Come hanno reagito?
Felici! Mi presentavano i bambini neonati che erano nati proprio sotto il terremoto. Queste mamme preoccupate, ma anche felici di aver dato la vita a questi bambini in un momento così tragico. Sentirsi visitati, soprattutto per i siriani, è una cosa straordinaria perché chi ci va in Siria, come si fa ad andare? Devi andare in macchina da Beirut. Non si sa con chi ci si imbatte, chi è che tiene quel posto di frontiera… Ci sono eserciti locali, eserciti stranieri, è una cosa talmente complessa che noi abbiamo pensato di risolvere isolandola. In realtà abbiamo distrutto una popolazione. Io conoscevo bene la Siria, era un gioiello. Una realtà abbastanza comunionale, con tutte le difficoltà che si conoscono, non bisogna negarlo. Quello a cui dovremmo pensare è: quando noi lavoriamo perché cambi la situazione politica, quale situazione politica alternativa proponiamo? Perché l’alternativa è il caos, l’anarchia totale e, soprattutto, se tu impedisci la consegna del petrolio, oppure te ne impossessi, oppure in qualche modo impedisci il carburante, come va avanti un’economia? Fai un mini progetto per poter tenere sul posto i cristiani, per esempio dare loro una casa e perché si riprenda l’artigianato, ma poi a chi lo vendono? È una società assolutamente e tragicamente impoverita, distrutta. E questo non giova a nessuno.
Come trovare una soluzione politica edificante?
Io non posso dare delle ricette ma vorrei esortare tutti quelli che sono coinvolti o sono stati coinvolti in questa vicenda a verificare degli obiettivi che tengano presente non lo sbocco politico soltanto, ma la situazione del bene concreto delle persone che abitano in quel Paese. Perché se io cambio un vertice e la gente è già morta, egli diventa un governante del nulla. Quando noi distruggiamo una realtà, abbiamo distrutto una realtà, non abbiamo costruito la democrazia. Però ho la sensazione che molto spesso questa dimensione del bene comune, del povero, della persona semplice scompare di fronte allo scopo specifico di ottenere quello che si vuole ottenere dal punto di vista politico. Così non otteniamo quello che vogliamo politicamente e nel frattempo esasperiamo una situazione impossibile da reggere. Oggi la politica è tutta così ovunque. Gli interessi strategici, basta vedere il caso ucraino, sono tali per cui vale il do ut des: ‘ti aiuto se…’, ‘ti do una mano se…’. Noi vediamo personaggi delle varie nazioni passare sullo scenario di questi Paesi e non ci rendiamo conto che la maggior parte va molto spesso per vedere cosa gli torna in cambio. Non si può fare una politica internazionale così perché siamo già stremati noi che pensiamo di avere in mano il mondo: non facciamo più figli, non abbiamo speranza, abbiamo perso molti dei valori che tengono insieme la società e però siamo ancora convinti di essere gli arbitri della situazione internazionale. È un’auto illusione sostanzialmente narcisistica.
Siamo ormai ad un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, dove lei fino al 2020 è stato nunzio apostolico. Quali sono i suoi sentimenti e quali margini di dialogo secondo lei esistono ad oggi perché si arrivi effettivamente ad un negoziato e alla pace?
Il periodo che io ho passato in Ucraina era un periodo già di guerra. Sono stato più volte in zone con le città bombardate.
E non se ne parlava a sufficienza?
No, assolutamente. Sono stato dove c’era il coprifuoco, la gente veniva in chiesa e poi stava lì fino al mattino perché non poteva uscire, anche la notte di Natale. La veglia pasquale si celebrava alle quattro del pomeriggio perché poi cominciava il coprifuoco e non potevano più uscire. Alla zona del Donbass, voglio ricordarlo, il Papa destinò 16 milioni di euro per aiutare i rifugiati, e abbiamo raggiunto 800.000 persone. L’Europa cristiana ha dato un segno concreto di quanto amava quel Paese più che attraverso i proclami politici attraverso le proprie tasche, e molto veniva dall’obolo della vedova. Naturalmente sono stati dati a tutti i cittadini ucraini, senza distinzioni. E siamo sicuri che sono andati ai destinatari e tutti sono grati al Papa per questo, anche le parti che erano conflittuali tra di loro. La Santa Sede si è mossa dunque ben prima dell’invasione russa proprio per evitare che esplodesse una situazione già estremamente tesa. Purtroppo non è stato sufficiente perché l’iniziativa degli accordi di Minsk non è arrivata in porto, non si è potuto o voluto implementarla. Ora, vedere delle prospettive nell’attuale situazione è molto difficile. Prima di tutto perché la buona volontà non dipende principalmente dagli ucraini. Gli ucraini hanno mostrato un coraggio assolutamente estremo nel modo di vivere e difendere la propria patria, ma c’è un intreccio di interessi internazionali, per cui questa guerra è fatta con terzi sul territorio ucraino. Poi ci sono i problemi concreti della difficile coabitazione della Russia con l’Ucraina, ma questo è un altro problema. Lo stesso vale per il Nagorno-Karabakh, sono guerre locali dove le grandi potenze si affrontano per interposto Paese. Se noi avessimo una organizzazione delle Nazioni Unite veramente funzionante e dove venissero tolte alcune strutture anacronistiche, per cui uno può bloccare tutto se non risponde ai propri interessi, lì sarebbe il contesto dove poter in qualche modo reagire. Le Nazioni Unite non sono unanimi, a favore di certi valori: ci sono i ricatti, le paure, le perplessità, le incomprensioni di fattori che noi non sappiamo e non vediamo. Quindi non c’è una coralità mondiale.
Insomma, l’Onu ha fallito la sua missione?
Diciamo che è quasi inoperante. Bisogna dire che fa molto sul territorio per la parte umanitaria, però c’è uno scollamento tra l’azione umanitaria e la volontà politica, e finché queste due cose non si incontrano io non vedo la possibilità di un dialogo. Che dialogo sarebbe infatti se si tratta di una politica elitaria gestita da persone o da gruppi, che non coinvolge le popolazioni? Io sono convinto che questa guerra, se dovesse dipendere dagli sforzi bellici, andrebbe avanti per un sacco di tempo. Il Santo Padre continua ad invitare al dialogo non solo perché il dialogo è uno strumento imprescindibile per noi cristiani. Si può dare un aut aut ai popoli che sono implicati, se si vuole ottenere una via d’uscita, ma bisogna che sia onesto. Se l’aut aut non viene dato per evitare di perdere i mercati, allora non è onesto e finisce per pagare il popolo. Insomma il dialogo si fa a livello di leadership politica che sappia farsi interprete del sentimento popolare e della gente della quale si occupa, senza questa specie di scambio di offese, di minaccia permanente che fa decadere il livello della politica al clima di un mercato rionale. La qualità della politica è diventata talmente becera che infiamma i sentimenti popolari ma non risolve i problemi.
Un’ultima domanda riguarda la sfida ecumenica e il suo contributo alla costruzione della pace…
L’ortodossia vive oggi un momento drammatico come forse mai nella sua storia: separazioni, divisioni e anche rancori profondi. Mentre una parte sta a guardare perché non sa che posizione prendere e non sa cosa ne deriva.
Come scardinare una alleanza con il potere politico che non porta al bene che lei auspicava?
Ricorrendo di più al vangelo e di meno alla politica, però è un cammino molto delicato perché l’Oriente – anche l’Occidente in passato – ha creato una tale commistione tra il senso nazionale e l’aspetto religioso per cui molto spesso l’identità etnica diventa una identità religiosa non praticante che regge le radici dell’identità etnica la quale è strettamente connessa con la religione, evidentemente. La presa di distacco dall’identificazione tra religione e potere politico nasce da un cammino di coscienza civica che sappia recuperare non la laicità “assurda” che abbiamo sviluppato in Occidente, ma la percezione che esistono ambiti di interesse e di azione che sono determinati da fonti diverse di riferimento. Del resto la forza di questo Papa sta proprio nel fatto che lui è l’interprete del Vangelo, di quell’esigenza di radicalità di Gesù Cristo figlio di Dio che si è fatto uomo per dare la vita per il mondo e creare la nuova Gerusalemme. Se noi continuiamo ad agire per la vecchia Gerusalemme, la Gerusalemme nuova sarà escatologicamente apocalittica.