“Don Milani. Vita di un profeta disobbediente” è il titolo della biografia scritta da Mario Lancisi, e pubblicata da TS Edizioni, nel centenario della nascita del sacerdote fiorentino morto a soli 44 anni. Noto in particolare per la scuola fondata per i ragazzi di Barbiana, il suo intinerario umano e spirituale rivive in questo volume a partire dalle origini borghesi, passando dalla decisione di farsi prete fino alla scelta radicale dei poveri in un’aderenza senza sconti al Vangelo
Adriana Masotti – Città del Vaticano
Cento anni fa, il 27 maggio 1923, nasceva a Firenze Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti. Dopo 20 anni di indifferenza nei riguardi della fede, lui dirà “vent’anni passati nelle tenebre”, incontra il Vangelo e decide di entrare in Seminario per farsi prete. A Carla, la “quasi” fidanzata, che lascerà per intraprendere una nuova strada, scrive alla vigilia: “Cara Carla, domani inizio la scalata al Cielo”. Sacerdote nel 1947, morirà a soli 44 anni il 26 giugno 1967, soffrendo molto, ma con attorno a sé i ragazzi per cui ha vissuto e senza ricevere un minimo riconoscimento da parte della Curia fiorentina della bontà di quanto fatto per la gente nelle due piccolissime parrocchie di San Donato di Calenzano e di Barbiana.
La biografia scritta da Lancisi
Mario Lancisi, l’autore del volume “Don Milani. Vita di un profeta disobbediente”, giornalista e scrittore, tra i più esperti biografi del sacerdote fiorentino, ne traccia il ritratto attingendo a nuove lettere, scritti e testimonianze tra le quali spiccano quelle esclusive di Adele Corradi, insegnante a fianco di don Lorenzo negli ultimi anni della sua vita, gli anni più avvincenti della Scuola di Barbiana, e di Francuccio Gesualdi, che con il fratello Michele ha vissuto per tredici anni in canonica con il priore. Racchiude oltre mezzo secolo di studi sulla figura di don Milani e testimonia il suo profondo interesse per colui che definisce “un punto di riferimento costante”, cominciato agli inizi degli anni Settanta.
Papa Francesco a Barbiana
Per sapere chi veramente è stato don Milani, sostiene Lancisi, bisognerà aspettare l’estate del 2017 quando Papa Francesco sale a Barbiana a pregare sulla tomba del priore. “Lui, il Papa, – scrive – ha le idee chiare: Lorenzo è un sacerdote e un educatore modello. Ai preti presenti dice: ‘prendete lui come esempio’”. In un videomessaggio del 23 aprile 2017 ai partecipanti alla presentazione dell’Opera omnia di don Lorenzo alla Fiera dell’editoria italiana, il Papa invita a leggere i suoi scritti “con l’affetto di chi guarda a lui come a un testimone di Cristo e del Vangelo”, “un credente innamorato della Chiesa, anche se ferito, e un educatore appassionato”. E prima ancora, parlando agli insegnanti cattolici, il 10 maggio 2014 in piazza San Pietro, Francesco cita il priore di Barbiana come “un grande educatore italiano”. Qualche settimana prima Papa Francesco aveva tolto il primo libro di Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, dall’elenco dei testi proibiti per restituirlo al popolo di Dio.
Le tre opere principali: l’impegno pastorale e quello civile
Il filo rosso del libro di Lancisi è quello di un profeta religioso e civile che ha marcato profondamente la storia del Novecento. Per rendersene conto basta guardare alle tre opere principali, tutte scritte a Barbiana: con Esperienze pastorali, uscito nel 1958, don Milani anticipa la riforma religiosa che verrà realizzata dal Concilio Vaticano II. Con L’obbedienza non è più una virtù del 1965 il priore affronta con i suoi ragazzi i grandi temi della pace, della disobbedienza civile e del primato della coscienza. Infine, con Lettera a una professoressa scritto nel 1967, don Milani coglie il clima che sfociò nel ’68 denunciando il carattere classista della scuola e affermando l’importanza della conoscenza e in particolare dell’uso delle parole per il riscatto dei poveri. È la grande lezione di don Milani, scrive Lancisi: “Se un povero possiede la parola è come se possedesse la fionda usata da Davide contro Golia”.
A cento anni dalla nascita, l’attualità di don Milani
Per Mario Lancisi quest’ultima biografia rappresenta il punto conclusivo del suo impegno teso ad approfondire la comprensione della testimonianza del sacerdote fiorentino. Ai microfoni di Vatican News parla di lui ripercorrendo le scelte, i momenti difficili, l’estrema coerenza, la scelta di prendersi cura fino alla fine di chi gli è stato affidato:
Mario Lancisi, un volume, il suo, che io ho trovato bellissimo, in alcune parti molto duro e senza sconti nel riproporre la figura e l’opera di don Milani. A partire dal titolo: “Vita di un profeta disobbediente”. Partirei da qui, dalla parola profeta…
Sì, profeta nel senso che Lorenzo Milani ha indicato una strada ai credenti, ai suoi parrocchiani, ai suoi ragazzi e nell’indicare una strada ha fatto quello che fanno i profeti, cioè ci ha messo la sua vita a supporto delle cose che diceva, cioè ha vissuto nella sua carne i valori che in qualche modo ha indicato ai suoi ragazzi. Il profeta, quindi, è uno che apre orizzonti nuovi. Lui, infatti, se si nota bene, non cita mai nessuno. È lui che, forte della sua passione per Gesù, per il Vangelo, forte della sua fede parla in prima persona, come appunto un profeta.
Si diceva disobbediente, però poi andando avanti nella lettura del libro, si scopre che è stato obbediente al massimo e insieme anche ribelle, ma che questi due aspetti non sono antitetici in lui…
Lei ha toccato qui un punto fondamentale e delicato. Confesso che quando per il mio testo l’editore ha scelto questo sottotitolo: “Vita di un profeta disobbediente”, ho pensato che qualcuno avrebbe potuto storcere il naso: “ma come disobbediente Lorenzo Milani, che era obbedientissimo, ecc…”. In realtà in Milani c’è una dicotomia tra obbedienza e disobbedienza che va spiegata. Lui era obbediente in maniera radicale e rigorosa, sine glossa al Vangelo e quindi a Dio, ma proprio in virtù di questa obbedienza all’Altissimo è anche disobbediente rispetto alle logiche del mondo, ai costumi del mondo, ma anche disobbediente rispetto a se stesso. Lui è uno che si è mortificato molto, che ha condotto una vita anche con tantissimi sacrifici personali, proprio per essere fedele al messaggio e ai valori per i quali a vent’anni si converte e decide di farsi sacerdote. C’è una fedeltà assoluta, rigorosa, qualcuno ha detto “da convertito”, però quello che colpisce in Lorenzo è questa assoluta obbedienza a Dio e nel contempo questo senso di grande criticità nei confronti propri, ma anche degli altri, compreso gli uomini della Chiesa, ovviamente.
Descrive la vita in Seminario, dove entra a vent’anni, come “un’immensa frode” in cui “le porcherie si chiamano mancanza contro la santissima purità”, oppure “l’odio, poca carità”. Eppure Lorenzo non pensa assolutamente di abbandonare il suo progetto di sacerdozio…
No, no, per carità. Lui, appunto per quello che dicevo prima, è fedelissimo. Lui non è uno che abbandona, dissuade anche alcuni giovani sacerdoti che erano in crisi e che volevano lasciare l’abito. Ci sono delle lettere in cui lui si prende a cuore i dubbi di alcuni confratelli e dice di rimanere ciascuno al proprio posto, ma di rimanerci con quel tratto suo di profeta che ad un certo punto mette in primo piano l’obbedienza a Dio, ma nel contempo anche il senso di criticità. Dopodiché il linguaggio di Milani bisogna anche saperlo decifrare e collocare nel contesto: quando lui parla di “frode” è il suo modo forte di raccontare un mondo. Lei dice: non ha pensato di lasciare il Seminario… In realtà l’ipocrisia l’aveva già conosciuta nel mondo borghese da cui proveniva, è quel mondo lì che non ha più sopportato tanto da andarsene, e poi la ritrova in quest’altro ambiente, nel Seminario, e questo lo porta ad essere critico, deluso, sofferente e anche duro, durissimo. Ma questo nulla toglie alla sua fede cristallina e anche alla sicurezza fino all’ultimo, della sua scelta di farsi prete.
Ecco, cruciale in tutta la vita di don Milani è il rapporto conflittuale con il Vaticano, ma più ancora con la Curia fiorentina, con il suo arcivescovo. E lei dedica molte pagine a questo. L’opera di Milani “Esperienze pastorali” è stata addirittura ritirata per volere della Curia e il suo lavoro a San Donato e a Barbiana rinnegato. Nonostante questo non è mai venuto meno il suo amore per la Chiesa…
Sì, riguardo a questo vorrei però precisare meglio, nel senso che io ho inteso distinguere in questa biografia l’atteggiamento, la posizione del Vaticano rispetto a don Milani, da quello che è stato il rapporto con la Curia fiorentina. Io ho avuto la fortuna di intervistare Loris Capovilla che è stato segretario di Papa Giovanni XXIII e poi collaboratore di Paolo VI e anche attraverso le sue testimonianze viene fuori in maniera evidente – ma ci sono anche delle lettere – come da parte di Papa Giovanni e successivamente di Paolo VI, ci fu un atteggiamento benevolo, di attenzione, forse addirittura di stima e di ammirazione per questo giovane prete fiorentino, tant’è vero che dal Papa, dal Vaticano, sono arrivati i soldi per le cure quando don Milani era molto malato. Diverso l’atteggiamento della Curia fiorentina e vorrei ricordare che nel libro c’è una specie di inedito di quando il cardinale arcivescovo Florit lascia l’incarico per raggiunti limiti di età, e l’Avvenire pubblica da un lato la notizia della fine della gestione Florit e dell’arrivo a Firenze di Benelli che poi diventa cardinale, e dall’altro pubblica nella stessa pagina, lo stesso giorno e nel giorno seguente, due articoli molto lunghi di un sacerdote molto stimato a Firenze, don Silvano Nistri, che riabilita Lorenzo Milani, parlandone in termini entusiastici.
Don Lorenzo, di origini borghesi, si è schierato decisamente con i poveri, ha diviso il mondo tra oppressi e oppressori e ha trovato riconoscimento in un Papa che ha voluto chiamarsi Francesco. La visita di Papa Francesco il 20 giugno 2017 a Barbiana è stata molto importante per la sua, diciamo così, riabilitazione, anche se poco fa lei diceva che già c’erano stati degli atteggiamenti benevoli da parte dei Papi precedenti…
È stata una visita a mio parere cruciale e fondamentale, perché è vero che io ho parlato di atteggiamenti benevoli da parte dei Papi, però non c’è da sottacere il fatto che comunque, per tanti anni, dopo la morte di Lorenzo, il priore di Barbiana è rimasto abbastanza indigeribile a molti ambienti cattolici, in parte forse ancora oggi. Papa Francesco lì fa una scelta forte e c’è un’immagine molto potente in cui si vede il piccolo cimitero di Barbiana e il Papa con questa tonaca bianca che incede nel cimiterino. Dietro ci sono coloro che lo accompagnano e il Papa fa una specie di gesto con le mani per dire: “state dietro” perchè era lui che voleva andare a rendere omaggio a Lorenzo in una sorta di finale di partita. E’ un po’ come dire: “Abbiamo sbagliato e chiediamo scusa”, e a me sembra questa una cosa molto forte. Il valore storico della visita è che quella pietra scartata dai costruttori – perché Milani nel 1954 fu esiliato a Barbiana che era un luogo non luogo, non c’era nelle mappe, quindi era proprio un esilio -, la pietra scartata dai costruttori diventa la pietra d’angolo della Chiesa del futuro. Papa Francesco la indica appunto come la pietra del futuro, Barbiana, come un crocevia della fede dei cristiani di oggi.
Don Lorenzo Milani è noto ai più per Lettera a una professoressa che ha avuto una portata, possiamo dire, rivoluzionaria. E l’ha avuta anche per la sua vita: ci racconta l’impatto personale che lei ha avuto con questo libro?
Io sono stato un ragazzo bocciato al quarto anno di ginnasio, essendo figlio di una famiglia poverissima e non sapendo che cosa fare, se andare a lavorare o continuare a studiare, qualcuno mi fece leggere “Lettere a una professoressa”. E questo libro per me fu un’emozione grandissima, mi misi a piangere, a ridere, perché in quel riso e in quel pianto, c’era come una liberazione interiore. La Lettera mi faceva capire le cose in cui io avevo sbagliato e che cosa c’era di sbagliato nella bocciatura. Mi aiutava a superare la timidezza che è propria dei figli dei contadini, quindi è stata una scoperta incredibile ed è da lì che ho cominciato ad avvicinarmi alla figura di Milani, al suo mondo, al mondo fiorentino dei cosiddetti “Folli di Dio” e da allora, erano gli anni ’70, ad oggi io sono ancora qui fermo con don Lorenzo Milani.
Le chiedo ancora una cosa a proposito di quello slogan che don Lorenzo aveva scritto sulla porta della propria camera: “I care”, cioè mi importa, ho a cuore. Ecco, mi pare che queste parole suonino di grande attualità oggi…
Di grandissima attualità, a parte i legami politici – ci sono stati congressi di partito intitolati I care e ultimamente Ursula Von der Leyen ha detto che I care è un po’ la bandiera dell’Europa -, ma io vorrei andare più in profondità. Nel libro c’è un capitolo dedicato ad una giovane napoletana, una studentessa che scrive a Lorenzo quando lui era molto malato. E questa ragazza manda una lettera per capire il senso della vita, con domande importanti, forti, e a questa lettera risponde un’allieva di don Lorenzo, perché lui alla fine non rispondeva più alle lettere, ma faceva rispondere ai ragazzi. Adele Corradi che è stata la professoressa che ha accompagnato Milani nella sua scuola di Barbiana, legge la risposta a questa ragazza e dice al priore che la risposta non la convince, pentendosi subito dopo perché don Lorenzo stava proprio male. Il priore legge questa lettera e pian piano si alza dalla branda, si siede al tavolino e si mette a scrivere una grandissima, straordinaria lettera dove afferma che non si possono amare tutti, che si possono amare solo poche persone, che Dio ci chiede di amare solo quelle poche persone ma di amarle in maniera incondizionata. Una lettera che è un po’ un testamento. Bene, uno in quelle condizioni avrebbe potuto anche chiudere gli occhi, lasciar perdere invece l’ I care, il prendersi cura delle creature che Dio gli poneva di fronte, ecco, fino all’ultimo ha voluto interessarsi alla storia di questa ragazza, dicendosi: le rispondo io. Ecco, questo mi sembra Milani, uno che fino all’ultimo ha dato tutto se stesso, fino al giorno dell’agonia in cui disse ai suoi ragazzi: “Io potrei permettermi, attraverso mia madre, gli infermieri migliori di Firenze ma voglio che ci siate voi qui accanto a me perché voglio insegnarvi a capire come muore un cristiano”, quindi anche la morte diventava per loro una lezione di vita.
Mario Lancisi, le ho fatto tante domande, ma lei che cosa avrebbe voluto dire di don Milani? Che cosa le viene in cuore quando pensa a lui?
E’ molto difficile… Racconto un fatto: Gherardo Colombo, il magistrato, una volta presentando un mio libro a Milano, è ricorso ad un’immagine che mi ha molto colpito, l’immagine del giovane ricco che di fronte alla chiamata di Gesù non lo segue come avrebbe desiderato Gesù. Ecco, per me Milani è quello che si pone di fronte la scelta della sequela di Gesù e la difficoltà di rispondergli di sì, è un po’ come un aculeo che corrode, punge la coscienza di ogni cristiano. Per me è sempre stato un elemento fondamentale, un’inquietudine, ma anche una stella, un punto di riferimento.
A 100 anni dalla nascita, come vede ricordato e conosciuto don Milani oggi nel mondo?
Viene riconosciuto in vari modi come vario è in ciascuno di noi l’atteggiamento di fronte a certi valori. C’è ovviamente l’abitudine, il senso delle cerimonie, quindi qualcosa di astratto, di vuoto. Ma c’è anche la voglia di rimettersi in discussione. Nel giorno in cui ho avuto la prima presentazione di questo libro in una comunità di Firenze, ad un certo punto un sacerdote ha detto che noi dobbiamo porci la domanda su come si può oggi far vivere i valori di don Milani nella società. Questo è un interrogativo che nel centenario della nascita siamo chiamati tutti a riproporre: come possiamo far vivere oggi don Milani nella società dolorosa e inquieta di oggi?