Sud Sudan: i piccoli sfollati al Papa: vogliamo la pace per poter tornare a casa

Vatican News

Bambini e giovani di altrettanti campi interni hanno raccontato le loro storie a Francesco nel secondo giorno del suo viaggio apostolico in Sud Sudan. Parole di gratitudine e speranza, che non nascondono le numerose difficoltà che loro, come migliaia di altri coetanei, vivono quotidianamente: mancanza di spazio, carenza di istruzione, solitudine, sogni di un futuro migliore

Andrea De Angelis – Città del Vaticano

Johnson non ha abbastanza spazio per giocare a calcio, ma neanche una scuola. Il suo indirizzo è B2, rispettivamente il blocco e il settore del sito per la protezione di civili in cui vive. Joseph ha 16 anni, otto dei quali trascorsi nel campo. “Se ci fosse stata la pace – dice a fatica, emozionato e commosso – mi sarei goduto l’infanzia”. Rebecca, come gli altri, è “molto felice” di avere davanti a sè il Papa, qui “nonostante il suo ginocchio dolorante”. Gratitudine, speranza, dolore, preghiera. Questo e molto altro esprimono le voci dei giovani che il Papa ha incontrato al campo sfollati interni di Giuba, le cui testimonianze hanno preceduto il suo intervento.

33 mila anime nel campo di Giuba

Sono passati dieci anni da quando conflitti e violenze su larga scala in tutto il Paese hanno portato le persone a fuggire dalle proprie case in cerca di sicurezza. Molti hanno trovato riparo in prossimità delle basi dell’UNMISS, la missione delle Nazioni Unite nel Sud Sudan. In diverse località del Paese, tra cui Juba, Melut, Wau, Bor, Bentiu e Malakal, la Missione ha accolto le popolazioni nei PoC, siti per la protezione dei civili. L’UNMISS ha poi gradualmente trasferito alcuni siti in campi di sfollamento convenzionali sotto il controllo del governo. A gennaio dello scorso anno erano circa 33mila le persone presenti nei campi per sfollati interni di Giuba, 2mila in più rispetto all’anno precedente.

Alcuni dei ragazzi provenienti dai campi degli sfollati interni

Noi siamo importanti per il Paese

Dopo la preghiera iniziale del moderatore della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields e la proiezione di un video, hanno parlato tre minori in rappresentanza dei piccoli sfollati di altrettanti campi sudsudanesi. Rebecca abita nel campo di Juba, si dice “felice e onorata” di essere qui, davanti al Papa. “Lei è una brava guida perché, nonostante il suo ginocchio dolorante, è venuto per stare con noi”, dice rivolta a Francesco, ricordando il rinvio di un viaggio particolarmente atteso da questo popolo. “Sappiamo che vuole bene ai bambini e che dice sempre che noi siamo importanti”, ha aggiunto, sottolineando come “a noi, bambini del Sud Sudan, piace molto ballare e cantare”. Un modo, questo, “per lodare Dio”. Ed è proprio “nel nome di Gesù” che Rebecca chiede al vescovo di Roma “una benedizione speciale per tutti i bambini, per poter crescere insieme in pace e in amore”. La voce tradisce l’emozione, la piccola ripete ancora il suo “grazie” e conclude: “Non dimenticheremo mai questo giorno”.

Vogliamo avere un futuro

I suoi genitori non hanno lavoro, lo zio gli manda degli aiuti, “così da poter comprare dei vestiti”. Lui frequenta la terza elementare, ma non dimentica i tanti coetanei che non possono farlo “perché non ci sono abbastanza scuole e insegnanti per tutti”. Non c’è neanche “abbastanza spazio per giocare a calcio”. Johnson, 14 anni, vive nel campo di Malakal con la madre e il padre. “La pace è un bene, i problemi no”, ricorda ed esprime con chiarezza ciò che occorre a lui e a tanti, moltissimi coetanei: “Vogliamo la pace perché le persone possano tornare nelle proprie case, avere un buon futuro, vogliamo che nella Chiesa si preghi affinché Dio ci consenta di tornare nella città di Malakal”. Città, casa, famiglia: tutto ciò è possibile solo se si costruisce, insieme, la pace.

L’accoglienza per Papa Francesco alla Freedom Hall di Giuba

Siamo qui grazie agli aiuti umanitari

Sedici anni all’anagrafe, la metà dei quali trascorsi nel campo della città di Bentiu. La storia di Joseph è quella di un ragazzo chiamato a crescere troppo presto e oggi consapevole del dramma che sta vivendo. Il suo pensiero è per il futuro, personale sì, “ma anche degli altri bambini”, perché chi ha conosciuto la fame, la paura di morire desidera che simili pagine non si scrivano più. “Perché soffriamo nel campo per gli sfollati? A causa – dice – dei conflitti in corso nel nostro Paese”. La sua analisi è lucida, sa bene che la sopravvivenza non era scontata. “Io, i miei genitori, insieme ad altre famiglie, siamo qui grazie agli aiuti umanitari”, ma “se ci fosse stata la pace sarei rimasto nella mia casa d’origine”. Joseph chiede ai leader religiosi di continuare a pregare per “una pace definitiva”, infine lancia un accorato appello ai leader del suo Paese: “Portino amore, pace, unità e prosperità”.

Al servizio di un popolo

“La richiesta di pace è palese”. A dirlo è la vice rappresentante speciale del segretario generale nella missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan, coordinatrice residente e umanitaria per il Paese. “Gli operatori lavorano 24 ore su 24 per rispondere ai bisogni urgenti delle comunità colpite. Tuttavia, le sfide sulla sicurezza spesso costringono il personale umanitario a trasferirsi e a sospendere le attività e – ammette – il Sud Sudan continua a essere il contesto più pericoloso per gli operatori, seguito da Afghanistan e Siria”. Nonostante questo l’impegno è totale. “Questo – sottolinea – non è solo il nostro lavoro, ma anche il nostro obiettivo. Siamo qui per servire il popolo sudsudanese, consapevoli dei nostri limiti ma consci delle opportunità”. Nel ricordare come oggi siano due milioni gli sfollati interni e altrettanti i rifugiati emigrati dal Paese, conclude rivolta al Papa: “La sua visita rinnova la mia speranza che, lavorando tutti insieme, il popolo del Sud Sudan potrà raggiungere la pace e sviluppare il potenziale di questo incredibile Paese”.