“Fuori dal mondo”: 25 anni fa il film delicato e profondo sulla novizia Caterina

Vatican News

Nella Giornata della Vita Consacrata, la testimonianza di Giuseppe Piccioni, regista del film pluripremiato nel 1999, che ha scelto Margherita Buy per il ruolo della novizia che salva un neonato abbandonato e viene tentata dal desiderio di maternità. “Ho voluto raccontare una scelta ‘per sempre’, in un mondo che non ci è più abituato” ci dice “e le suore che l’hanno visto mi hanno ringraziato per non essere caduto nei clichè, o nella macchietta”

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

“Mi interessava raccontare le scelte, e i dubbi, di una ragazza di questi anni che fa una scelta definitiva, in un mondo dove non c’è più l’idea di una cosa ‘per sempre’. E poi volevo che dietro l’abito da suora di Caterina si vedesse anche la donna, la persona”. Giuseppe Piccioni è il regista di “Fuori dal mondo”, film girato 25 anni fa, nel 1998, e uscito nel 1999, vincitore di 5 David di Donatello e premi in Canada e Stati Uniti, nel quale la vita della giovane novizia Caterina (Margherita Buy), vicina ai voti perpetui, si intreccia con quella di Ernesto, titolare di una lavanderia, (Silvio Orlando) e di Teresa, ragazza madre che abbandona il figlio appena nato in un parco di Milano.

Il rito della vestizione “copiato” in un convento

Un film che Piccioni ha preparato documentandosi in un convento di Bergamo, accolto da una madre superiora giovane e “non convenzionale”, ci racconta, che gli ha permesso di riprendere un rito di vestizione di alcune novizie, “che ho quasi copiato nel film”, perché molto struggente, “tanto da coinvolgermi profondamente”. Quando il regista ha chiesto alla superiora se ancora fosse previsto il taglio dei capelli ai voti perpetui, “lei mi disse che nel loro ordine e in molti altri non era più così e per dimostrarlo si tolse la cuffia, che nascondeva una treccia lunghissima, fino ai piedi. Mi è piaciuta l’idea di una suora che ha fatto una scelta di quel tipo, e però conserva e custodisce qualcosa della sua femminilità”. E anche Margherita Buy, “che di solito lavora sul copione” ha frequentato qualche convento per studiare i comportamenti e le posture”.

Caterina alla fine riprende il suo cammino

Caterina, trovandosi tra le braccia il piccolo abbandonato da Teresa, che è stata dipendente e amante di Ernesto, scopre un desiderio di maternità, e conoscendo l’uomo, solo e con sbalzi d’umore e di pressione, che crede di essere il padre del neonato, “è costretta a verificare la sua scelta di vita”, spiega Piccioni. Ma alla fine riprende il suo cammino, perché riesce a mettere insieme “la sua persona con l’abito, la scelta che ha fatto”. Le religiose incontrate dopo l’uscita del film, anche in proiezione-evento, hanno ringraziato il regista “perché non avevo fatto il clichè, la macchietta”, sulla vita consacrata. “E anche il cardinal Martini, in una di queste proiezioni, è rimasto molto toccato dal film” ci dice ancora Piccioni.

Giuseppe Piccioni e Margherita Buy premiati al Castiglione Film Fest 2022. Foto Karen Di Paola

Un film “fuori dal tempo” amato da pubblico e critica

Ed è curioso, conclude, che un film così “fuori dal tempo” di quegli anni, “a modo suo quasi ‘trasgressivo’, sia riuscito ad avere un buon risultato di pubblico, abbia vinto tanti premi in Italia e in tutto il mondo”. Anche per questo Giuseppe Piccioni e Margherita Buy, protagonisti di un incontro col pubblico all’ultimo Castiglione Film Fest organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo della Cei, hanno scelto, tra i tanti film realizzati insieme, di portare nella rassegna proprio “Fuori dal mondo”. Ed è in quella occasione che abbiamo incontrato il regista. Ecco tutta l’intervista a Giuseppe Piccioni:

Ascolta l’intervista a Giuseppe Piccioni (Fuori dal mondo)

Ci racconti come è nato il film “Fuori dal mondo” e come si è documentato sulla vita delle religiose. E’ vero che ha bussato alle porte di parecchi conventi?

“Fuori dal mondo” è nato in un modo davvero strano. C’è stato un periodo, e questa è una confidenza, che ho avuto per qualche mese degli attacchi di panico, tant’è vero che nel film c’è Silvio Orlando che ha dei momenti di panico, proprio di inquietudine…

Silvio Orlando che è un pò il suo alter ego nel film…

Forse sì, Silvio è un po’ il mio alter ego, non in senso di rispecchiamento, perché lavoro molto anche sul personaggio per tenerlo vicino a me ma anche distanziarlo da me. E allora in quel momento mi è capitato di incontrare, abitavo a Trastevere, delle giovani suore. Ho preso una telecamera e ho cominciato a riprenderle. Ne ho fatto anche un breve corto che è stato utilizzato come sigla del Festival Arcipelago, una rassegna sui corti del cinema italiano. E lì ho capito che quello che mi interessava è quest’idea di una ragazza oggi, in questi anni, che fa una scelta definitiva, in un mondo che non è più abituato a scelte definitive. Dove l’idea che una cosa possa essere per sempre mi sembrava fosse più precaria, quasi che ormai ci trovassimo ad abitare degli accampamenti provvisori dell’esistenza. Una volta, uno nasceva in un posto e moriva quel posto, faceva lo stesso lavoro per tutta la vita, sceglieva una donna o un uomo per tutta la vita. E questo invece si è incrinato.

Una delle scene iniziali del film, quando il piccolo neonato finisce tra le braccia di Caterina

E allora ho pensato a “Fuori dal mondo” e a questa suora, però senza immaginare la suora secondo le normali aspettative. Volevo che si intravedesse dietro l’abito anche la donna, la persona, l’essere umano. Ne ho parlato con Margherita, che è stata entusiasta e che, diversamente da altri suoi film (lei è una che lavora sul copione, non fa le cose del metodo, non vive come una suora per due mesi), in questo caso ha cominciato a frequentare qualche convento, a studiare i comportamenti, anche le posture, tante cose. Dopodiché,  terminata la sceneggiatura, abbiamo iniziato i sopralluoghi. Perché noi avevamo imbastito la storia, la scrittura, informandoci al meglio che potevamo, però sicuramente qualcosa andava arricchito con questa esperienza dei sopralluoghi…

E’ stato allora che avete cercato il convento adatto?

Sì, abbiamo bussato a diversi conventi nelle provincie intorno a Milano, in particolare a Bergamo, dove l’abbiamo trovato. Era quello che cercavo, sia per le caratteristiche del convento, sia per il paesaggio che c’era intorno, però anche per l’accoglienza che abbiamo avuto da queste suore, in particolare dalla madre superiora, che mi colpì perché era molto giovane, per l’idea che io mi ero fatto della madre superiora “convenzionale”. Le domande che le facevo erano quelle di un profano, per quanto io conosca qualcosa perché ho avuto anche una zia suora, le domande essenziali che farebbe chiunque. Una volta le ho chiesto se ancora oggi ci fosse la cerimonia del voto, nella quale le ragazze, giovani novizie, scelgono di diventare effettivamente per tutta la vita suore, e se ci fosse ancora il taglio dei capelli. Lei mi disse che nel loro ordine e in molti altri ordini non era più così, e per dimostrarlo si tolse la cuffia, e aveva una treccia lunghissima fino ai piedi. Mi è piaciuta questa idea di una suora che ha fatto una scelta di quel tipo, e però conserva e custodisce qualcosa della sua femminilità. E mi sembrava di intravvedere questo anche nelle celle del convento, nelle loro camere: c’era sempre qualcosa che impreziosiva l’ambiente, lo personalizzava.

Giuseppe Piccioni durante l’intervista

Non era come l’idea che avevo di un luogo del tutto austero, al di là della presenza già in quegli anni di computer e di tante altre cose. Poi questa madre superiora è entrata nel film, ci ha dato assistenza e consulenza. Ci hanno permesso di filmare una cerimonia dei voti che venivano presi dalle giovani novizie, che io ho ripreso con la mia telecamera e quasi l’ho copiata nel film, perché mi accorgevo, mentre riprendevo, che c’era qualcosa di struggente, di molto forte, ero coinvolto. E allora ho cercato di restituire questo clima nella scena della vestizione. Il film poi sullo schermo è un risultato curioso, che sfugge anche al tuo totale controllo, però dove convergono le esperienze che hai fatto nel momento in cui l’hai preparato, le scelte che hai fatto, le persone con cui ti sei relazionato. E penso che abbiano contribuito a dare al film, la forma e il sentimento che io mi aspettavo che avesse.

Caterina è una donna che scopre il valore, e anche il desiderio della maternità, ma poi conferma la sua scelta e la sua vocazione. Come racconta questo passaggio chiave nel film?

Attraverso uno scombussolamento, un’occasione: l’incontro con un neonato, trovato per caso, e con una persona, la costringe a misurare le sue scelte in base anche a qualcosa che lei incontra concretamente. E’ un’altra possibilità: un uomo, un neonato, qualcosa che la confonde. Però alla fine sente che deve andare fino in fondo. Ed è interessante perché in un altro film un personaggio così, probabilmente, anche per l’idea di una scelta facile, avrebbe abbandonato tutto e sarebbe fuggita non si sa dove, in Sudamerica, in Messico. Perché erano le scelte della mia generazione. Invece lei ritorna e riprende il suo cammino, nel quale riesce a mettere insieme lei, come persona, e l’abito, la scelta che ha fatto. E questo, in parte, però non riguarda solo Caterina, riguarda tutti, il ruolo che ognuno di noi ha nel mondo. Riguarda il personaggio interpretato da Silvio Orlando, che ha una lavanderia e queste ragazze che lavorano con lui, di cui non ricorda mai il nome, e comincia a esercitarsi e a ricordare i nomi. Anche nelle immagini di gruppo che si vedono alla fine, c’è un tentativo di armonia proprio tra l’essere umano e il lavoro che svolge, il ruolo che ha socialmente. E questa è la cosa che mi interessava maggiormente. Non ci sono grandi terremoti, non c’è chissà quale finale. Ci sono piccoli passi, che però sono passi decisivi, importanti.

Indagando questo aspetto psicologico delle religiose, lei pensa che sublimino il desiderio naturale di maternità di una donna, sentendosi “madri” di tutti i bambini e le persone che incontrano?

Io sicuramente penso che se noi crediamo in qualcosa, se abbiamo una passione, siamo tutti comunque attraversati dal dubbio, da occasioni che ci mettono di fronte a noi stessi, alla verità, rispetto alle scelte che abbiamo fatto. Questo vale anche se avessimo una famiglia che ci soddisfa, un lavoro che ci piace, la sensazione di lasciare il nostro segno, le nostre impronte digitali in quello che facciamo. Poi queste impronte possono essere nei figli, o in quello che ha seminato, che hai costruito intorno a te, nel fatto di essere stato decisivo per qualcun altro, o per lo meno un riferimento. E credo che non bisogna aver paura dei dubbi o del rischio del fallimento. Sono molle per l’esistenza, sono occasioni di cambiamento, di riflessione. Questo vale anche nel nostro lavoro, nel mio di regista: io non lo vedo solo come una professione, non mi sento un professionista. Conosco il mestiere, so benissimo come si fa un film e penso di saperlo fare, cerco di farlo al mio meglio. Però penso che sia più importante anche conservare la capacità di rischiare, di avventurarsi in qualcosa che senti di dover raccontare, al di là delle considerazioni, di quanto incasserà o non incasserà. Insomma, ci sono dei mestieri che hanno una dimensione totalizzante, che assomigliano in parte anche a una scelta di tipo religioso, come può essere fare lo scrittore o il giornalista, e che assomigliano a volte anche ad una vocazione. Ti pongono di fronte a un confronto continuo tra quello che hai fatto, che forse avresti potuto fare meglio. E anche a volte misurare quello che vali, l’incertezza per sapere se sei all’altezza. A volte è anche bello non essere all’altezza, perché è come se tu inizi il percorso, e poi quello che fai, ti sei talmente impegnato, che il risultato è meglio di quello che tu sei. Io quando vedo il mio film quando è uscito, mi stupisco, e dico: “ma guarda, chi l’ha fatto?”. Perché è vero che il film poi si fa anche un po’ da solo, a volte si allineano i pianeti e alla fine tutto sta dove deve essere. Quindi penso sia importante che noi tentiamo di avere rispetto per il lavoro che facciamo, e della responsabilità nei confronti degli altri, di non trovare soluzioni sempre più facili.

Parliamo infine delle reazioni a questo film, al di là dei tanti premi, soprattutto tra le religiose. Ci può raccontare degli episodi di incontri con religiose, che hanno visto il film, e che le hanno detto qualcosa?

Ho dei bellissimi ricordi, moltissimi, di giovani religiose che erano molto contente che non avessi fatto il cliché, la macchietta. E poi anche perché qualcuno, tra i produttori, quando volevo fare questo film, mi diceva che le suore al cinema non portano tanta fortuna. Invece è curioso che un film così “fuori dal tempo” di quegli anni, che penso sia stato anche un film, a modo suo, quasi trasgressivo, sia riuscito ad avere un buon risultato di pubblico, abbia vinto tanti premi in Italia e in tutto il mondo. E’ interessante perché ho scelto la strada più difficile e proprio quella è stata vincente. E poi ho avuto l’occasione di conoscere tante persone, credenti e non credenti. Ho partecipato ad una proiezione con il cardinale Martini che è stata molto emozionante, perché è stato un confronto con un vero intellettuale, un vero pensatore. E lui era molto toccato dal film. Lo abbiamo fatto vedere a dei ragazzi, che erano in un posto dove facevano una specie di convitto ed è stato molto curioso, e molto interessante per me.