L’Osservatore Romano
Il dialogo interreligioso non si oppone all’evangelizzazione, ma ne determina lo stile. Lo ha sottolineato il cardinale Raniero Cantalamessa, durante la prima predica di Avvento, il 2 dicembre, nell’Aula Paolo VI, alla presenza di Papa Francesco. È fuori dubbio che il mandato di Cristo di fare discepoli tutti i popoli, ha fatto notare il porporato, «conserva la sua perenne validità, ma va compreso nel suo contesto storico». Sono parole da riferire al momento in cui sono state scritte, «quando “tutto il mondo” e “tutti i popoli” era un modo per dire che il messaggio di Gesù non era destinato solo a Israele, ma anche a tutto il resto del mondo». Esse, ha aggiunto, «sono sempre valide per tutti, ma per chi appartiene già a una religione, ci vuole rispetto, pazienza e amore». Lo aveva capito e messo in pratica Francesco d’Assisi. A questo proposito, il cardinale cappuccino ha ricordato che il santo «prospettava due modi di andare verso i Saraceni e gli altri infedeli», come scriveva nella Regola non bollata. Il primo era non fare liti, ma essere soggetti «ad ogni creatura umana per amore di Dio», confessando di essere cristiani. L’altro modo era che quando «vedranno che piace al Signore, annunzino la Parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo».
Ciò apre a una riflessione di grande attualità, di cui il predicatore si è fatto interprete: «Se la fede che salva è la fede in Cristo, che pensare di tutti quelli che non hanno alcuna possibilità di credere in lui?». Oggi si vive, ha constatato, in una società, anche «religiosamente, pluralistica». Ma le teologie, orientale e occidentale, cattolica e protestante, «si sono sviluppate in un mondo dove esisteva in pratica soltanto il cristianesimo». Si era «a conoscenza dell’esistenza di altre religioni, ma esse erano considerate false in partenza, o non erano prese affatto in considerazione». A parte il «diverso modo di intendere la Chiesa, tutti i cristiani condividevano l’assioma tradizionale: “Fuori della Chiesa non c’è salvezza”: Extra Ecclesiam nulla salus». Ora però, ha evidenziato, «non è più così». Da qualche tempo è in atto «un dialogo tra le religioni, basato sul reciproco rispetto e sul riconoscimento dei valori presenti in ognuna di esse». Nella Chiesa cattolica, il punto di partenza è stata la dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, ma «un orientamento analogo è condiviso da tutte le Chiese storiche cristiane». Con tale riconoscimento si è andata affermando «la convinzione che anche persone al di fuori della Chiesa possono salvarsi».
È possibile, si è chiesto Cantalamessa, in questa nuova prospettiva, mantenere il ruolo finora attribuito alla fede “esplicita” in Cristo? L’antico assioma «fuori della Chiesa non c’è salvezza» non finirebbe per sopravvivere, in questo caso, nell’assioma «fuori della fede non c’è salvezza?». In alcuni ambienti cristiani, quest’ultima è, di fatto, «la dottrina dominante ed è essa che motiva l’impegno missionario». In questo modo, però, «la salvezza viene limitata in partenza a una minoranza esigua di persone». Ciò non solo «fa torto prima di tutto a Cristo, sottraendogli gran parte dell’umanità». Non si può credere che «Gesù è Dio, e limitare poi la sua rilevanza a un solo ristretto settore». Il predicatore ha citato in proposito la Scrittura, la quale afferma che «chi non ha conosciuto Cristo, ma agisce in base alla propria coscienza (Rm 2, 14-15) e fa del bene al prossimo (Mt 25, 3 ss.) è accetto a Dio». Negli Atti degli apostoli, ha ricordato il cardinale cappuccino, anche Pietro afferma che «Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga (At 10, 34-35)».
Del resto «aderenti ad altre religioni credono», in genere, che «Dio esiste e che ricompensa coloro che lo cercano» (Eb 11, 6)», realizzando, perciò, quello che la Scrittura «considera il dato fondamentale e comune di ogni fede. Questo vale, naturalmente, in modo speciale, per i fratelli Ebrei che credono nello stesso Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe in cui crediamo noi cristiani». Il motivo principale di questo ottimismo «non si basa, tuttavia, sul bene che gli aderenti ad altre religioni sono in grado di fare, ma sulla “multiforme grazia di Dio” (1 Pt 4, 10)», il quale «ha molti più modi per salvare di quanti noi possiamo pensare. Ha istituito dei “canali” della sua grazia, ma non si è vincolato ad essi». Uno di questi mezzi «straordinari di salvezza è la sofferenza». Dopo che Cristo «l’ha presa su di sé e l’ha redenta, è anch’essa, a modo suo, un universale sacramento di salvezza». Misteriosamente, «ogni sofferenza — non solo quella dei credenti —, compie, in qualche modo, “quello che manca alla passione di Cristo” (Col 1, 24)». Ed è per questo che «La Chiesa celebra la festa dei santi Innocenti, anche se neppure essi sapevano di soffrire per Cristo!». A tal proposito, il cardinale ha detto che «noi crediamo che tutti coloro che si salvano si salvano per i meriti di Cristo». Non è, quindi, «superfluo» continuare «a proclamare il Vangelo a ogni creatura». Tutt’altro! È il motivo che «deve cambiare, non il fatto». In questa prospettiva, si deve «continuare ad annunciare Cristo; non tanto però per un motivo negativo, perché altrimenti il mondo sarà condannato, quanto per un motivo positivo: per il dono infinito che Gesù rappresenta per ogni essere umano», ha concluso.