Il 12 ottobre, la Sapienza Università di Roma ha conferito al Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, il Dottorato honoris causa in Studi politici. Pubblichiamo di seguito il testo della sua Lectio magistralis.
Racconta Ryszard Kapuscinski in “Ancora un giorno, cronaca degli ultimi momenti della colonizzazione portoghese in Angola”, che, per capire cosa stava davvero succedendo sul fronte attorno a Luanda, bastava dare uno sguardo alla rada del porto dalle finestre dell’albergo Tivoli in cui erano rintanati i giornalisti, privi di telefoni o telex. All’ancora erano ormeggiate in permanenza varie navi battenti bandiere europee. I loro capitani, in contatto radio continuo con l’Europa, avevano una visione migliore di ciò che stava accadendo sul campo di battaglia rispetto a chi si trovava in trappola nella città assediata e accerchiata dalle truppe dell’MPLA (Movimento popolare di liberazione dell’Angola) e dell’FLNA (Fronte nazionale di liberazione dell’Angola). Quando le notizie davano la battaglia finale per Luanda ormai vicina, le navi salpavano e si allontanavano verso il mare aperto per fermarsi a qualche miglio dalla costa, sempre in vista. Quando le notizie erano migliori, ritornavano nella baia per attraccare e caricare, “come sempre”, caffè e cotone. Questo movimento era durato settimane e bastava guardare fuori della finestra per sapere come stava andando la guerra. Per molto tempo tale ritmo altalenante è stato il modello nelle relazioni tra Europa e Africa, così strette nel passato, poi così allentate da far sparire tutto un continente dal nostro orizzonte quotidiano. Certo il commercio continua, “come sempre”, ma non basta ad avvicinare l’Africa all’Europa, se non a tratti e per motivi ben precisi e contingenti.
Cos’è oggi l’Africa per l’Europa? Nel discorso pubblico il continente nero rimane sfuggente. Lo si dipinge alternativamente come terra delle opportunità economiche o come mostro demografico pronto a schiacciarci; giacimento a cielo aperto o antro di malattie e pandemie; buco nero che inghiotte gli aiuti internazionali o socio nel commercio internazionale; lions on the move (McKinsey) o bottom billion (come scrive Paul Collier) cioè l’ultimo miliardo. La globalizzazione ha fatto arretrare la povertà estrema nel mondo; in Asia la partita è stata in parte vinta e oltre la metà dei poveri ancora esistenti si concentra ora in Africa. D’altra parte, se osserviamo come sono aumentate le diseguaglianze in Europa possiamo immaginare l’effetto dall’altra parte del Mediterraneo. C’è una lunga storia di rapporti tra Africa sub-sahariana ed Europa, al centro della quale si colloca la colonizzazione (ma anche la vecchia storia dello schiavismo), che provoca sentimenti controversi.
Le sfide che abbiamo davanti a noi
Con i paesi dell’Africa indipendente l’Europa comunitaria ha tentato di costruire rapporti collaborazione in campo politico, economico e culturale ma lo spirito di queste relazioni è sempre stato ambivalente: da una parte la ricerca di profitto; dall’altra una comunanza culturale nel nome della pace e della solidarietà. Spesso questo si è mescolato a politiche paternalistiche di sfruttamento diseguale. Più recentemente l’Europa ha sostenuto i processi di progresso economico e sociale e anche di pace. Quest’anno è il 30° della pace in Mozambico mediata dalla Comunità di Sant’Egidio tra il 1990 e il 1992: una data importante – anche personalmente per me -, una pace che è divenuta un modello, una “formula italiana” per dirla con le parole del segretario generale dell’ONU Boutros Ghali. Con il nuovo millennio l’Africa si è trovata ad affrontare una fase nuova e decisiva della sua storia, caratterizzata da due grandi sfide: il definitivo aggancio all’economia mondiale e la transizione verso la democrazia. In tale presente circostanza storica l’Europa deve essere cosciente delle sue responsabilità per stare al fianco degli africani in maniera nuova. Ci rendiamo conto delle sfide alle quali è oggi sottoposto l’intero continente. La spinta alla liberalizzazione degli scambi commerciali ha provocato una crescita sostenuta ma ha anche allargato le diseguaglianze e cambiato la mentalità, in specie dei giovani, verso un’idea più individualista della vita. Persistono ampie e sempre inaccettabili zone scure: la povertà, talvolta anche estrema, affligge ancora vasti strati delle popolazioni del continente; fenomeni di violenza diffusa e i conflitti che ostacolano le condizioni necessarie per lo sviluppo. L’epidemia dell’AIDS ha provocato la diminuzione dell’età media di vita, che in alcuni paesi si è abbassata per la prima volta dall’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso. La sfiducia dei giovani che non credono più nel futuro dei propri paesi ed emigrano con viaggi molto pericolosi. Davanti a tale quadro problematico, molti giungono ad affrettate conclusioni definitivamente pessimistiche e si rassegnano su un’Africa destinata a rimanere nella periferia della storia. Credo che tali affermazioni siano arbitrarie. L’Africa non è inerte ma è in piedi: l’energia e la dinamicità dei suoi popoli è sotto i nostri occhi. La caparbietà e la tenacia con cui le genti africane non si stancano di ricostruire la vita civile e materiale, anche dopo catastrofi naturali o periodi di conflitto, sono degne del rispetto di tutti. Questa è la dimostrazione che l’Africa vuole vivere e che i suoi popoli e le sue nazioni desiderano divenire partner ascoltati e stimati della comunità internazionale. L’Europa non può abbandonare l’Africa ma deve appoggiarla in uno spirito di partnership che, pur facendo tesoro delle esperienze del passato, trovi un nuovo slancio e nuove motivazioni di collaborazione che vadano oltre il mero interesse economico. Come già all’inizio di questo secolo diceva il presidente Carlo Azelio Ciampi: “Africa e Europa condividono lo stesso spazio storico, culturale e geografico, i rapporti fra i due continenti continueranno ad incrociarsi fittamente. Abbiamo di fronte a noi un compito epocale: collegare saldamente e durevolmente il futuro dell’Africa all’Europa”. Lo possiamo osservare nell’Unione europea: ogni politica basata sull’esclusione e sull’autoreferenzialità è destinata al fallimento. I due continenti sono legati da un principio di interdipendenza, che deve essere considerato come un’opportunità nel complesso mondo contemporaneo. Alcuni obiettivi concreti sono alla nostra portata: oltre alle questioni economiche c’è da inventare assieme un modello di welfare adattato al XXI secolo (in particolare penso all’educazione e alla sanità gratuita per tutti come forma di giustizia); poi la preservazione dell’ambiente, come la protezione delle foreste e la lotta alla desertificazione che è davvero interesse globale; aggiungo il sostegno alla democratizzazione e infine la cosa più importante: la difesa della pace. Su tali sfide è necessario un impegno ingente e durevole dell’Europa in Africa. Ne va del nostro futuro comune. Vari tentativi del passato, soprattutto a riguardo dell’aspetto economico, non sono riusciti ad operare l’auspicata inversione di tendenza. Ci è troppo spesso arenati nella contesa sulle migrazioni. Conosciamo già alcune delle condizioni necessarie allo sviluppo: buon governo, lotta alla corruzione, abbattimento delle barriere commerciali, politica migratoria circolare. Tuttavia, ancor più necessaria è una vasta coalizione di intenti e di assunzione di responsabilità in favore della pace. Vorrei ribadire, come ha detto papa Francesco, che la guerra è una “resa vergognosa”: lo vediamo in Ucraina o in Siria ma è vero anche per l’Africa. Di fronte agli attuali drammatici conflitti europei e africani, occorre una solidarietà attiva in favore della pace capace di coinvolgere tutta la comunità internazionale.
La nuova centralità dell’Africa con il XXI secolo
Dopo aver perduto valore geopolitico dalla fine della guerra fredda, con l’avvento della globalizzazione l’Africa ha riacquistato centralità sugli scenari mondiali. Malgrado i conflitti (soprattutto la violenza diffusa), le malattie e l’instabilità politica – che comunicano una percezione del continente come “spazio difficile” – oggi l’Africa conta di più. Gli anni Novanta – il decennio d’oro dell’Europa – sono stati per l’Africa anni di crisi economica ma anche di democratizzazione: si sono dissolte alcune dittature come quella di Menghistu in Etiopia o la cleptocrazia di Mobutu in Zaire; è finita l’apartheid in Sud Africa. C’è stata – come ho detto – la pace in Mozambico nel 1992 dopo un milione di morti, grazie alla mediazione svolta dalla comunità di Sant’Egidio. Poi sono venuti gli anni Duemila che paradossalmente hanno visto l’inizio della crisi occidentale ed europea ma in parallelo lo sviluppo del continente africano, almeno fino alla pandemia. Dalla svolta del Millennio si è parlato di Africa Rising: un continente nuovo con più democrazia e una classe media in espansione. Gli investimenti esteri hanno portato nuove opportunità e la crescita è rimasta sostenuta per 20 anni. Le società civili africane sono diventate protagoniste di molte battaglie per i diritti umani e civili. Numerosi paesi si sono incamminati verso la democrazia, i colpi di stato sembravano quasi finiti e l’Unione africana non accettava più cambi di regime violenti. Insomma circa vent’anni di buone notizie, mentre l’Europa iniziava una lenta (anche se molto confortata) discesa nel sentimento di declino, ad esempio nei confronti di un’Asia alla conquista dei mercati. Il momento più difficile per l’Europa è stato la crisi finanziaria del 2008 che invece non ha avuto effetti in Africa. In quegli anni si è detto che “la Cina ha conquistato l’Africa”. Nei primi 20 anni del XXI secolo, l’Africa è stata considerata come terreno vergine per molti settori dell’economia internazionale, in particolare quello agroindustriale con cospicua disponibilità di terra coltivabile (200 milioni di ettari, al netto delle foreste), ma anche quello delle materie prime energetiche e minerarie. Questi atout, a cui aggiungere quelli di una popolazione giovane e disposta a spostarsi, sono vantaggi comparativi che attirano investimenti. Il paradosso è stato che gli europei hanno preso le distanze dal continente proprio quando cinesi (ma anche altri come giapponesi, coreani, malesi, indonesiani, brasiliani, turchi ecc.) si sono avvicinati.
Pandemia e guerra aumentano di nuovo il divario
Sullo sfondo di polemiche mai sopite sulla questione migratoria, due anni fa c’è stata per tutti la grande frenata della pandemia, accompagnata dall’aumento della tensione tra Cina e Occidente e infine la tragedia guerra in Ucraina. Tali eventi stanno di nuovo cambiando il volto dei nostri due continenti. La pandemia ha visto l’Europa chiudersi al suo interno con egoismo: poca condivisione dei vaccini e delle altre strumentazioni di prevenzione e presidio sanitario. La solidarietà è stata difficile anche tra europei stessi. In Africa la percezione è stata di un nuovo abbandono anche se il covid pare essere stato meno virulento sul continente subsahariano. Ciò che non cambia è il divario tra sistemi sanitari: la privatizzazione di quel poco di buona sanità che c’è in Africa, ha finito per distruggere quasi completamente quella pubblica senza che l’Europa difendesse un modello che peraltro è il suo. Il programma DREAM contro l’aids della Comunità di Sant’Egidio dimostra come sia possibile fare buona sanità gratuita ed aperta a tutti anche in Africa, contro quell’idea di apartheid sanitaria, ancora presente, di chi sostiene (anche nelle organizzazioni internazionali preposte) che “gli africani non sanno curarsi”.
Dopo la pandemia, ecco la grande guerra: l’aggressione russa ha cambiato le relazioni internazionali. Mentre l’Europa è presa da fremiti bellicisti, l’Africa sente questo conflitto come non suo e cerca di non prendere posizione. Numerosi Stati africani non vogliono essere coinvolti in una disputa che non percepiscono come loro e che potrebbe protrarsi a lungo. Attorno al continente subsahariano c’è molta competizione da parte dei due schieramenti, soprattutto all’ONU dove la posizione dell’Africa pesa davvero con i suoi 54 voti. Cresce un certo fastidio per l’insistenza con cui le due parti cercano di attrarre il consenso africano. Peraltro la guerra sta producendo conseguenze economiche gravi, con un aumento esponenziali dei prezzi al consumo, l’esplosione di quelli dei trasporti, dell’energia e dei beni alimentari che sta facendo schizzare in su il debito degli Stati ma soprattutto ha messo in seria difficoltà le famiglie africane. Per questo l’Africa vuole che la guerra si fermi presto: che si negozi subito per non trascinare tutti nel gorgo di una nuova fase di crisi economica globale subito dopo quella generata dalla pandemia.
Partenariato o autosufficienza?
Malgrado le numerose promesse di “piani Marshall” (l’ultimo quello proposto da Angel Merkel), non è chiaro all’Unione Europea quale possano essere le qualità di una nuova partnership euroafricana, nonostante il grande bagaglio di conoscenza e di storia in comune. D’altra parte, si assiste a una vera e propria ristrutturazione del pensiero politico degli africani stessi. Gli ideali panafricani sono in larga parte naufragati e l’attuale crisi generale del multilateralismo colpisce anche il continente. Le difficoltà dell’Unione Africana (UA) sono emblematiche e forse non potrebbe essere altrimenti se si pensa a quelle della stessa UE su cui le istituzioni panafricane sono ricalcate. La fiducia dell’opinione pubblica africana nel grande progetto unitario si è ridotta, rivolgendosi verso nuove opzioni e nuovi modelli, come quelli autoritari sino-russi.
Nel contesto della globalizzazione che ha rimescolato piani, identità e economie, le classi dirigenti del continente cercano vie autonome, non temendo di opporsi alla comunità internazionale. Non dobbiamo nasconderci le difficoltà attuali dietro un irenismo di facciata: Prima ancora delle recenti polemiche provocate dalla guerra, ci sono state altre incomprensioni: si pensi alla tentazione dell’autosufficienza basata sulla dottrina sudafricana della “Africa Renaissance”; ai “patriottismi etnici” (come in Costa d’Avorio o Burundi), replicati ora in Mali in chiave anti-francese; all’opposizione del governo sudanese ad ogni influenza per la soluzione del Darfur; alle lunghissime polemiche Rwanda-Francia sulle responsabilità del genocidio del 1994, superate oggi grazie a una rivisitazione storica della memoria voluta dal presidente Emmanuel Macron; a quelle tra Zimbabwe e Gran Bretagna all’epoca dell’esproprio delle terre ordinato da Robert Mugabe che hanno avvelenato per anni le relazioni fino alla caduta del leader; alle proteste dell’opinione pubblica africana contro i patti migratori firmati con gli europei in questi anni (come l’indignazione generale africana per la schiavitù in Libia); all’affermarsi di democrazie illiberali o autoritarie (sul modello sino-russo) e al crescente fastidio africano nei confronti dei richiami europei su diritti dell’uomo, anti-corruzione e controllo dei passaggi elettorali. Tutto questo obbliga ad una nuova riflessione sulle relazioni euroafricane, che parta su basi non solo di interessi condivisi ma anche di una comune visione del futuro. Léopold Sdar Senghor parlava di Eurafrica come di un’idea di civiltà -civiltà dell’universale- nell’unione tra i due continenti fondata su legami culturali e spirituali.
Un’Africa nuova da rispettare
Per questo è necessario un diverso dialogo politico tra Europa e Africa ancora tutto da costruire, allo scopo di superare distanze e pregiudizi passati: è un dialogo che si deve svolgere su un piano di assoluta parità e con spirito di buona volontà da entrambi i lati. D’altra parte i cambiamenti antropologici e culturali, assieme all’informazione globale, rendono più consapevoli gli africani di sé stessi e delle loro aspettative. L’africano medio contemporaneo pensa al futuro in maniera più individuale che collettiva, in specie i giovani. Il mondo si è culturalmente globalizzato anche in Africa, nonostante il digital divide, con l’omogeneizzazione dei desideri e delle attese. Quello che sembrava remoto oggi appare molto più vicino. L’Europa stessa è più raggiungibile. È il miraggio del benessere (della prosperità come dicono le chiese pentecostali, oggi molto presenti nel continente) sembra a portata di mano. La reciprocità che l’Europa si rifiutò di concedere in passato e che ora vorrebbe a tutti i costi, non è più garantita, come si osserva sulla questione migratoria. L’Europa vorrebbe un accresciuto controllo delle frontiere ma da parte sua concede poco. Sappiamo dell’antica dialettica sui vincoli imposti dalla politica agricola comune che bloccano l’importazione dei prodotti africani. Ma ci sono anche questioni più recenti. È un vero scandalo, ad esempio, che le agenzie di moneytransfer facciano così tanti soldi sui poveri proventi che gli africani mandano a casa. Allo stesso modo è vergognoso che chi vuole tornare nel proprio paese da vecchio non possa vedersi trasferita la pensione, come accade con l’Italia. Oggi con l’Africa si deve negoziare davvero, come con chiunque altro. Al contrario gli europei continuano a pensare che, tenuto conto della sua cronica instabilità, primo o poi l’Africa tornerà ad essere più malleabile. Niente è meno certo di questo.
Decolonizzazione e disaffezione
La fine della colonizzazione – dimenticata in Europa e in Italia addirittura rimossa – fu un fatto più significativo di quanto si pensi, soprattutto se lo si osserva in parallelo con l’inizio della costruzione europea, avvenuta negli stessi fine anni Cinquanta. Non ci fu quasi opposizione né grande dibattito nella opinione pubblica europea di allora. Ovviamente non ce ne fu nemmeno in Africa. Per le ex colonie francesi, ad esempio, le indipendenze giunsero quasi tutte ad agosto del 1960, nella totale disattenzione dei francesi che stavano in vacanza. In Europa eravamo in pieno boom, quello che i francesi chiamano “les trentes glorieuses” “i 30 (anni) gloriosi” (dal 1945 al 1975) e gli italiani “il miracolo economico”. Gli europei volevano disfarsi di un fardello e, dopo il fuoco della Seconda guerra mondiale, cercavano qualcosa di nuovo. Parlando dell’indipendenza algerina, la decolonizzazione più dolorosa, lo storico Benjamin Stora scrive: “in definitiva ciò non inaugurò una Francia dallo sguardo più generoso e aperto sul mondo e sull’uomo del Sud… si trattò piuttosto di disfarsi del Sud, il fardello che pesava sulla Francia, più che di rispondere alle sue aspirazioni. De Gaulle aveva un progetto per la Francia, non per il Terzo Mondo”.
Ci chiediamo: decolonizzando, l’Europa ebbe solo un progetto per sé? Forse va ristudiato quel periodo per comprendere lo choc che tale decisione provocò, dalle due parti del mare, come si legge nel famoso romanzo di Amadou Kouroma “Il sole delle indipendenze”. Si tratta di un tema di attualità: molti conflitti africani successivi (si pensi al Sahel attuale ma anche alla crisi ivoriana del 2000-2010) si devono anche al tracciato dei confini amministrativi diventanti improvvisamente frontiere internazionali. La decolonizzazione ha provocato una serie di conseguenze ancora attive. Per popoli ed economie locali lo choc fu tremendo. Malgrado ciò subito dopo le indipendenze avvenne anche un fenomeno singolare (e poco studiato) che fa riflettere: per gli europei vi fu una corsa all’Africa anche senza copertura istituzionale. Ad esempio, la presenza degli europei (in maggioranza francesi, ma non solo) nelle ex colonie di Parigi raddoppiò. Non fu una decisine governativa ma un impulso della società europea. Il continente si riempì di volontari, cooperanti, insegnanti, professionisti di ogni genere e anche, ovviamente, di imprenditori. È ad esempio una storia italiana: prima ancora che il nostro Stato inventasse la cooperazione allo sviluppo (la prima legge è la n° 1222 del 1971 a cui è seguita poi la n° 38 del 1979), negli anni Sessanta volontari, tecnici e imprenditori agricoli e industriali italiani si riversarono quasi ovunque assieme alle nostre imprese. Era la dinamicità di quegli anni e in Africa tale memoria è viva ancora oggi. Qualcosa attirava: l’Africa era simpatica, un legame resisteva e si rafforzava in maniera nuova.
Oggi quel mondo sembra passato, sepolto sotto i colpi di scandali a ripetizione, regimi autoritari o falliti, il politicamente corretto, riflusso europeo o temi controversi come quello dell’Africa agli africani. Ciò che è cambiato è soprattutto il sentimento europeo: l’Africa di oggi sembra piena di problemi, pare essenzialmente una minaccia. A 60 anni dalla maggioranza delle indipendenze, l’unico bilancio che generalmente si fa è quello del fallimento economico degli Stati (la retorica dei failed states). Resta solo il mercato delle materie prime (agricole o minerarie), terreno di competizione con cinesi ed altri. Un po’ poco per costruire un futuro comune.
Eurafrica: per un nuovo viaggio comune
Senza metterci ad approfondire ora i mali dell’Europa attuale (la difficoltà del processo di integrazione sostanzialmente arenato dopo il fallimento del progetto di costituzione europea; la sua ostinata autoreferenzialità; la crisi della solidarietà interna; i litigi sulle migrazioni e così via), vorrei dire che l’Europa per rinascere dal suo egoismo ha bisogno dell’Africa e, reciprocamente, l‘Africa ha bisogno dell’Europa per curare le sue ferite. L’Africa oggi per l’Europa rappresenta il grande spazio in cui mettere alla prova l’utilità della sua esistenza. A che serve l’Europa? è la domanda da farsi senza guardarsi addosso ma alzando lo sguardo. L’Europa può essere utile per la creazione di un vasto campo della democrazia e dei diritti che vada da Capo Nord al capo di Buona Speranza. Si parla tanto di diritti nel nostro mondo ma limitandoli a sé stessi e al proprio piccolo mondo. Malgrado tutto e nonostante le forze che vi si oppongono, la democrazia è una profonda aspirazione degli africani, una loro attesa. In questo ci può essere un’avventura comune. È noto che democrazia non è fatta solo di elezioni ma anche di separazione dei poteri, indipendenza della magistratura, libertà civili garantite, stato di diritto, libertà di stampa e di associazione ecc. La democrazia è una lunga strada. C’è spazio per un intervento europeo, non di stampo neo-coloniale ma di partenariato politico e giuridico. Il funzionamento della democrazia necessita di un lungo apprendistato, a cui l’Europa può contribuire con esperienza ed immaginazione.
Si tratta di un tema globale. Il modello di “capitalismo e autocrazia” (“capitalismo animista” come la chiama Achille Mbembe) è divenuto una tentazione generale, ben al di là dell’Africa sub-sahariana come si vede in Asia e America Latina. Inoltre, dobbiamo ammettere i danni che la crisi dell’iperliberismo economico ha provocato. La mancanza di regole nel mercato finanziario, generando frequenti fenomeni speculativi globali ha reso difficile per tutti ma ancor più per economie semplificate come quelle africane (basate cioè solo sulla rendita delle materie da esportazione), di compiere quel necessario processo di diversificazione che le renderebbe più mature e stabili. Questo è un altro compito che l’Europa potrebbe assumersi. Papa Francesco ne parla diffusamente nella Fratelli Tutti: un modello che non crei scarti… Un nuovo legame euroafricano può servire alla creazione di un’area comune non solo di libero scambio delle merci ma delle persone, della cultura e delle idee. Oggi una delle sfide globali maggiori è quella di quale sia modello sociale: dalla crisi del liberismo che non ha mantenuto le sue promesse di prosperità per tutti, alla deglobalizzazione in atto a causa della pandemia e della guerra. Tutti si chiedono come si fa ad unire crescita con giustizia sociale. L’Africa è il banco di prova per un’Europa meno impaurita che desideri dimostrare che i valori del suo modello sociale sono ancora universalmente validi. Come scrive Bauman: “la libertà dalla paura è stato la grande speranza dello stato sociale, promessa che avrebbe segnato e orientato il successivo mezzo secolo di storia”. Questo è il modello europeo di uscita dalla paura che l’Europa e l’Africa assieme possono riscoprire. L’Europa può essere ancora una volta il modello della libertà dalla paura se soltanto non si limita a guardare solo sé stessa. Nella sua storia l’Europa ha elaborato gli anticorpi per combattere nazionalismo e sciovinismo, vecchie malattie europee presenti anche in Africa. Esiste un umanesimo europeo che ha avuto stagioni felici e può incontrarsi con quell’umanesimo africano come era nei sogni di Senghor: l’incontro “del dare e del ricevere”. Con il tempo gli europei hanno appreso la difficile arte del dialogo e del vivere insieme. L’Unione Europea è stata la sola risposta adeguata alle grandi sfide della pace dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi ci occorre qualcosa di più: un’Europa con una missione, che risvegli negli europei il sentimento del loro futuro comune. Non una risposta tecnocratica o funzionale ma un “desiderio europeo” che faccia appello alla profondità delle radici e ai sentimenti dei cittadini. L’Africa rappresenta il partner ideale di questa sfida per il vincolo culturale e linguistico. Un partner da incontrare con rispetto e senza paternalismo perché ha molto da dare.
La pace come diritto umano
Violenza e degrado del vivere civile globale sono pericolosi ostacoli alla maturazione della democrazia in Africa come in Europa. In Europa vediamo crescere varie forme d’odio e di razzismo, manipolate da imprenditori dell’allarme sociale e del rancore, a puri fini politici. Ho parlato prima delle recenti elezioni di “piccolo interesse” che talvolta anima i responsabili politici. Il tema della guerra e della pace sono oggi rilanciati dal dramma del grande conflitto tra Russia e Ucraina che ci coinvolge tutti. In Africa il fattore più preoccupante è il diffondersi della violenza diffusa e dei fenomeni criminali che rendono instabile il vivere civile, in zona urbana e rurale. Eventi di tipo latinoamericano come le gang iniziano a vedersi anche in Africa sub-sahariana. Tutto ciò va oltre il vecchio schema del terrorismo o dell’integralismo islamico che esiste ma non è l’unica presenza violenta. Il jihadismo si radica laddove è stato già distrutto il tessuto sociale ed etnico, come si vede in nord Mozambico abbandonato da decenni ai predatori privati e contrabbandieri di minerali; o nel Sahel dove occupa un vuoto politico, sostituendosi a istituzioni corrotte e inefficienti. La circolazione delle armi e dei fenomeni criminali è generalizzata. Intere aree del continente sono fuori controllo da tempo, come l’est della RD Congo o il Delta del Niger, il Sahel, il Corno ecc. Alcuni conflitti sono stati lasciati proseguire per decenni senza intervenire, come in Somalia. Contrabbandieri, trafficanti, terroristi islamici, ribelli nomadi, security provider, mercenari, contractors ecc.: la guerra è diventata un mestiere (il mestiere delle armi), un affare permanente. Non è quello che abbiamo visto in Ucraina dal 2014 ad oggi? E in Georgia dal 2008? E in Nagorno Karabakh, Bosnia, Kosovo…? Confitti lasciati senza soluzione possono improvvisamente riaccendersi e, come nel caso dell’Ucraina, diventare degli enormi pericoli globali. Soprattutto ora che si parla di rischio nucleare, credo che sia urgente una riflessione sul valore della pace che unisca Africa ed Europa: dare il giusto valore alla ricerca permanente della pace sia come soluzione di un conflitto che come riconciliazione e convivenza. Esiste un diritto umano alla pace che Africa ed Europa possono costruire assieme: la guerra è stata troppo banalizzata come fatto naturale, eventualità normale, triste compagna della storia umana e della politica. La guerra è ridiventata popolare mentre si spegneva l’eco del grande sogno di pace nato nei lager e nei gulag, cresciuto nel calderone della grande guerra mondiale e sopravvissuto anche alla guerra fredda e al muro. Dobbiamo riaffermare quel sogno che non può essere solo autoreferenziale per sé, ve lo posso testimoniare come mediatore per la pace in Mozambico e altrove: dimenticando di lavorare per la pace attorno a sé, l’Europa scopre con orrore di averla sprecata. Cosa c’è di più significativo di lavorare assieme, africani e europei, per riaffermare e ricostruire le basi umanistiche di quel sogno affinché divenga realtà? È quasi inutile parlare di democrazia e di sviluppo se prima non c’è la pace, sia come cessazione del conflitto che come riconciliazione e apprendimento del vivere assieme.
Il sogno di papa Francesco
Lasciatemi terminare queste mie parole con un sogno sul mondo, un sogno di giustizia e di uguaglianza che è quello del papa. Quando visitò Bologna, cinque anni or sono parlò di Diritto alla pace, celebrando l’anniversario dei trattati di Roma che dettero vita “dopo due guerre mondiali e violenze atroci di popoli contro popoli” all’Unione proprio per tutelare il diritto alla pace. “Ma oggi molti interessi e non pochi conflitti sembrano far svanire le grandi visioni di pace. Sperimentiamo una fragilità incerta e la fatica di sognare in grande. Ma non abbiate paura dell’unità! Le logiche particolari e nazionali non vanifichino i sogni coraggiosi dei fondatori dell’Europa unita. E mi riferisco non solo a quei grandi uomini di cultura e di fede che diedero la vita per il progetto europeo, ma anche ai milioni di persone che persero la vita perché non c’erano unità e pace. Cent’anni fa si levò il grido di Benedetto XV, che era stato Vescovo di Bologna, il quale definì la guerra «inutile strage» (Lettera ai Capi dei Popoli belligeranti, 1° agosto 1917). Aiutiamoci, come afferma la Costituzione Italiana, a “ripudiare la guerra” (cfr Art. 11), a intraprendere vie di nonviolenza e percorsi di giustizia, che favoriscono la pace. Perché di fronte alla pace non possiamo essere indifferenti o neutrali. Il Cardinale Lercaro qui disse: «La Chiesa non può essere neutrale di fronte al male, da qualunque parte esso venga: la sua vita non è la neutralità, ma la profezia» (Omelia, 1° gennaio 1968). Non neutrali, ma schierati per la pace! Perciò invochiamo lo ius pacis, come diritto di tutti a comporre i conflitti senza violenza. Per questo ripetiamo: mai più la guerra, mai più contro gli altri, mai più senza gli altri! Vengano alla luce gli interessi e le trame, spesso oscuri, di chi fabbrica violenza, alimentando la corsa alle armi e calpestando la pace con gli affari”. “L’Università è sorta qui per lo studio del diritto, per la ricerca di ciò che difende le persone, regola la vita comune e tutela dalle logiche del più forte, della violenza e dell’arbitrio. È una sfida attuale: affermare i diritti delle persone e dei popoli, dei più deboli, di chi è scartato, e del creato, nostra casa comune. Non credete a chi vi dice che lottare per questo è inutile e che niente cambierà! Non accontentatevi di piccoli sogni, ma sognate in grande. Sogno anch’io, ma non solo mentre dormo, perché i sogni veri si fanno ad occhi aperti e si portano avanti alla luce del sole. Rinnovo con voi il sogno di «un nuovo umanesimo europeo, cui servono memoria, coraggio, sana e umana utopia»; di un’Europa madre, che «rispetta la vita e offre speranze di vita»; di un’Europa «dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile» (Discorso per il conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016). Sogno un’Europa “universitaria e madre” che, memore della sua cultura, infonda speranza ai figli e sia strumento di pace per il mondo”.
La “Querida Amazonia” riguarda anche l’Africa e vuole anche essere un grido di amore e tenerezza per le terre trascurate, colpite e lacerate dagli interessi materialistici. La terra necessita di cura e protezione. Questa terra è anche l’Africa: il papa fa riferimento a tutte le terre abbandonate alla predazione e al commercio diseguale. Per questo tra le pagine dell’esortazione si trovano tante cose che riecheggiano anche la Laudato Si: una cura del creato che divenga vera conversione per gli uomini e per il mondo. Ma anche per il modello economico. Il papa parla dei diritti dei più poveri, dei popoli meno riconosciuti: i popoli originari a cui è stata strappata la dignità di essere considerati come gli altri, perché piccoli, indifesi, non aggressivi. È ciò che nella storia del mondo è capitato e accade ancora a molti popoli e a culture cosiddette “minori”, come i rom che mai hanno combattuto per una terra, mai sono stati nazionalisti. Lo stesso si potrebbe dire di molti popoli africani, piccole greggi che la storia scritta dai potenti ha cancellato. Penso ad esempio agli Herero della Namibia, il primo genocidio della storia avvenuto nei primi anni del Novecento, prima ancora di quello degli Armeni. Penso al “velo del colore” che ancora ricopre l’uomo e la donna neri, per utilizzare le parole di W.E.B. Du Bois, il leader afro-americano che fu il primo a scrivere della liberazione dei neri all’inizio del Novecento. Penso allo stigma della schiavitù. Con spirito materno il Papa richiama ognuno di noi a custodire la bellezza della diversità di queste genti solo apparentemente minori, per ascoltarle comunicandoci a vicenda il vangelo della misericordia e della pace. Si tratta –come dice papa Francesco- di una nuova inculturazione, aperta e non isolata, non contrapposta, non revanchista. E qui ancora si può fare riferimento all’Africa dove spesso l’inculturazione ha significato la creazione di un’identità nazionale ed etnica vivace ma anche feroce contro le altre, densa di contraddizioni vendicative, quasi che per affermarsi dovesse obbligatoriamente assumere i caratteri peggiori degli ex colonizzatori. Per questo il papa chiama l’Africa e l’Europa a purificare le proprie identità dagli aspetti aggressivi ed avversi, per rileggere l’inculturazione nel quadro della convivenza tra culture, essere umani e con la natura, e cercare un nuovo modello di sviluppo. La diseguaglianza insita nell’attuale sistema si basa sul concetto dell’“io proprietario”, perciò stesso violento e predatore. L’Africa continua a soffrire di tali predazioni: è il momento per uscire da questo destino e potremo farlo solo assieme. Non si tratta di retorica: davanti all’ingiustizia, alla diseguaglianza e alla distrazione della coscienza sociale, il grido scandalizzato di chi si oppone alla logica predatoria propone anche un’alternativa di sviluppo realista. Il papa cerca soluzioni che non comportino distruzione consapevole che nella diseguaglianza non c’è futuro. Nella sola crescita economica nemmeno, perché l’innovazione tecnologica distrugge lavoro più di quanto ne crei. È necessaria un’economia solidale, basata sulla persona umana.
Nell’attuale momento storico l’Africa e l’Europa possono fare di queste parole un disegno per il loro avvenire comune.