Benedetta Capelli – Città del Vaticano
E’ Papa Francesco, nella sua toccante lettera a Joy, protagonista del libro di Mariapia Bonanate, a guidarci nel dolore delle vittime della tratta, nella loro Via Crucis di donne crocifisse, presenze fantasma sulle nostre strade dalle quali fuggiamo lo sguardo.
Quella di Joy è una storia che accomuna tante altre persone, come lei rapite in una catena infernale e colpite dalla tragedia dell’invisibilità della tratta. Una storia tanto sconosciuta quanto sinistramente onnipresente nelle nostre società globalizzate. A ben guardare, la sua via crucis si dispiega come un mosaico di realtà vissute dai tanti fratelli e sorelle più vulnerabili, resi “trasparenti” agli occhi degli altri.
Il profumo della libertà
Quella di Blessing Okoedion è una storia con le stesse assonanze. Dalla sua parte la forza di una leonessa, la determinazione a non arrendersi, la voglia di scegliere il suo futuro. A 26 anni, quando già si era laureata in informatica in Nigeria, cade nella rete di una donna che le propone un lavoro. Le fa un colloquio, l’aiuta nei documenti per il visto. Tutto sembra regolare. E invece ad attenderla c’è la strada. Non partiamo da qui ma dall’oggi, dal riscatto, dall’impegno per le altre donne grazie alla sua associazione “Weavers of hope” (Tessitori di speranza) che salva le persone dalla tratta.
Chi è oggi Blessing?
R.- E’ una donna emancipata che sa cosa vuol dire la libertà, non solo per me ma anche per le altre donne. Sono una donna che ha vissuto sulla propria pelle la tratta, un fenomeno che toglie la dignità. E’ questo che mi spinge sempre a lottare contro queste ingiustizie, contro questa schiavitù che impedisce e distrugge i sogni di tante donne e di tante bambine.
Hai fondato “Weavers of hope”, come è nato questo progetto? E in che modo si realizza il tuo impegno?
R. – Prima di raccontarti il mio progetto devo ricordare il ruolo importante che suor Rita Giaretta ha giocato proprio nella nostra vita perché le donne che hanno fondato con me l’associazione sono tutte donne sopravvissute alla tratta. Suor Rita non solo ci ha accolto ma ha creduto nella nostra emancipazione. Ricordo un giorno che, parlando con lei, mi diceva che noi non potevamo rimanere in silenzio, schiacciate dal passato, perché ogni anno ci sono tante donne che subiscono la tratta, che vengono abusate e private dei loro diritti. Quindi la propria storia è molto importante ma non basta. Abbiamo bisogno di una piattaforma per poter dire alle ragazze che noi eravamo come loro ma oggi viviamo, oggi stiamo lottando anche per la loro libertà, stiamo proprio vivendo una vita bella.
Tu come hai incontrato Suor Rita Giaretta?
R. – Nel 2013 quando sono arrivata in Italia e ho capito che quello che mi chiedevano di fare non era il lavoro per il quale ero andata via dalla Nigeria. Arrivata in Italia, ho capito che era tutto un inganno e allora ho fatto la denuncia, la polizia mi ha portato a Casa Rut. Lì ho incontrato suor Rita, non avevo fiducia perché la persona che mi aveva portato qui era una donna che si professava cristiana. Ero delusa ma quando sono arrivata nella casa, ho visto proprio un altro mondo, l’amore vero, ho visto la passione nel lottare per le persone deboli, ho visto la passione per gli esseri umani, ho visto la passione che spinge anche altre ragazze ad impegnarsi.
Hai denunciato ma per arrivare a farlo ci sono dei passaggi: dalla consapevolezza di essere stati ingannati, lo stare in strada. Dove arriva la forza per sporgere denuncia?
R. – Devo ringraziare Dio per il coraggio che mi ha dato, ringraziare i miei genitori che hanno creduto nell’istruzione di una donna, una cosa non scontata in un villaggio della Nigeria. E’ l’istruzione che regala la conoscenza. Io prima della mia partenza mi ero laureata in informatica, venivo in Italia per lavorare. Ma sono caduta nelle mani di una donna che è riuscita proprio a conquistare la mia fiducia. Quando sono arrivata in Italia mi hanno detto che avevo un debito di 65mila euro, quindi ho capito subito che ero in trappola. Dentro di me cercavo di capire come uscire da questa situazione. Arrivando sulla strada, dove in maggioranza c’erano ragazze minorenni, tutte mi davano il benvenuto ma poi tutte piangevano, altre erano arrabbiate perché dicevano che in Italia non c’era lavoro e invece avevamo creduto il contrario. Nel mio primo giorno in strada, è arrivata la macchina di un cliente, io piangevo e ad un certo punto le altre mi dicevano che dovevo ridere e non parlare, dovevo fare finta come se quello fosse davvero il lavoro che volevo fare. Ho pianto molto. Questa è la schiavitù e bisogna rompere queste catene invisibili.
Hai partecipato alla riunione presinodale con Papa Francesco e a lui hai detto che se fossi stata costretta a rimanere su quella strada sarebbe stato meglio morire, tanto era come se fossi già morta…
R. – Ero terrorizzata, non era proprio la vita che volevo vivere. Avevo 26 anni e non volevo vivere come un robot, senza poter scegliere cosa mettere, dove andare, cosa fare, per me era la morte. I trafficanti ti guardano come un prodotto, i clienti ti guardano come un prodotto da comprare, da usare, le tue emozioni non contano. E’ una trappola che ho vissuto e ho capito cosa significa essere una vittima.
Per questa Giornata mondiale di preghiera contro la tratta qual è un tuo desiderio?
R. – Quello che io desidero è un’economia senza tratta, un’economia dove non ci siano disparità, priva di sfruttamento minorile, questo è il mio desiderio perché noi tutti dobbiamo proprio lavorare insieme per contrastare questa economia fatta di schiavitù.