Eliana Astorri – Città del Vaticano
La pandemia in corso ha causato il ritardo nelle diagnosi oncologiche che inevitabilmente provocherà un aumento della percentuale di mortalità. Dal 6% al 13% ogni mese di ritardo, afferma il professor Giampaolo Tortora, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Oncologia Medica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCC. L’Italia è un’eccellenza nella ricerca oncologica e nelle terapie avanzate e mirate. Ai nostri microfoni il professor Tortora illustra i dati del Gemelli per quanto riguarda le diagnosi, i trattamenti effettuati e l’avvio verso la guarigione:
R. – Il Gemelli è un policlinico con una forte vocazione oncologica, perché quasi la metà di tutti i pazienti che vi accedono hanno una diagnosi di patologia neoplastica. Quindi, tutta l’organizzazione del Policlinico Gemelli per la patologia oncologica, che ruota intorno a competenze multidisciplinari e alla multidisciplinarietà, è il punto di forza nella gestione dei pazienti affetti da tali patologie. Una fotografia di quello che è l’oncologia nel nostro Paese mostra un quadro sicuramente molto molto rilevante per quello che è il problema salute, se consideriamo che in Italia ci sono 3 milioni di malati oncologici che aumentano di 90mila unità ogni anno, e che abbiamo complessivamente 370mila cittadini che sono colpiti ogni anno dal cancro. Il 60% di questi pazienti sono, peraltro, lungo-sopravviventi e oggi possiamo dire con soddisfazione che almeno un quarto di tutti i pazienti, che vivono dopo la diagnosi di tumore, ha raggiunto l’aspettativa di vita simile a quella di chi non l’h mai avuto, quindi sicuramente abbiamo una fetta molto consistente di popolazione che si è ammalata, ma fortunatamente abbiamo anche una fetta molto cospicua di persone che si sono messe alle spalle questa patologia e che, presumibilmente, sono guarite. Questo è il contesto nazionale. Nel contesto locale del Policlinico Gemelli, sicuramente nel nostro policlinico i pazienti affetti da patologie oncologiche rappresentano una parte molto rilevante dell’intera attività di tutto l’ospedale. Chiaramente l’impatto che il Covid ha prodotto sul numero di pazienti che sono stati seguiti nel nostro Paese, ma anche nella nostra struttura, è un impatto che ha prodotto e produrrà delle ripercussioni.
In piena pandemia siete riusciti ad evitare che il virus entrasse in ospedale e, quindi, l’attività del reparto oncologico è proseguita, l’attività del DH di oncologia è andata avanti anche, fra le altre cose, non spostando i medici di Oncologia da un reparto ad un altro e questo ha portato un ottimo risultato. Però, si tratta di persone che erano già ricoverate o che già stavano effettuando i trattamenti. Cosa ne sia stato, invece, delle persone alle quali, in quel periodo, il medico di base ha consigliato di fare un controllo oncologico. È probabile che quelle persone, per paura del Covid abbiano rimandato o addirittura cancellato questa visita?
R. – Questo è un problema estremamente rilevante. Io ora darei una fotografia di quello che è stato l’impatto del Covid-19 nel contesto nazionale. A livello nazionale, prima di tutto purtroppo il Covid ha portato un tasso di mortalità complessivo pari al 25-35% in più in chi aveva un tumore in una fase attiva, quindi ha avuto un impatto importante sui pazienti oncologici, ma sappiamo che questo è stato soprattutto vero per chi aveva patologie oncologiche toraciche e, soprattutto, la neoplasia del polmone perché il Covid ha aggiunto problematiche respiratorie molto gravi. Ma un aspetto sicuramente non secondario, sebbene non così drammatico, è stato quello dei ritardi, basti pensare che circa il 20% dei malati oncologici, che avrebbe dovuto essere sottoposto a trattamenti utili, non si è recato in ospedale per timore del contagio, esattamente come lei rilevava. Tanto per dare qualche numero: soltanto nella prima metà del 2020, quindi soltanto a metà della pandemia che poi abbiamo vissuto per tutto l’anno scorso, sono stati eseguiti quasi un milione e mezzo di esami di screening in meno rispetto allo stesso periodo del 2019; 30% di interventi chirurgici oncologici in meno; circa 400mila biopsie cioè il 52% in meno. Rispetto allo stesso periodo, le visite dei reparti oncologia hanno segnato meno 57%; 64% i ritardi negli interventi chirurgici. Volendo trasporre questo in numeri pratici, se parliamo di tumori ad alta incidenza, il tumore della mammella e del colon-retto, stiamo parlando di 2099 diagnosi in meno di tumore della mammella e oltre 600 diagnosi meno di tumore del colon-retto. E noi sappiamo che una diagnosi tardiva significa anche una maggiore difficoltà nel fornire le cure risolutive, quindi una minore possibilità di guarigione. Tra l’altro, curare una malattia scoperta tardivamente, costa di più.
Il ritardo diagnostico, legato al timore dei pazienti di recarsi in ospedale, e alle disponibilità ridotte degli ospedali stessi, si è tradotto, quindi, in una serie di problematiche molto rilevanti. Com’e andata al Gemelli?
Riguardo a quello che abbiamo vissuto noi al Policlinico, tutte le misure adottate, soprattutto i percorsi Covid e non Covid separati, le mascherine per pazienti e operatori da subito, cosa che detta oggi sembra banale, ma adottata da marzo era all’avanguardia per certi versi, e poi i tamponi e triage per tutti i pazienti in entrata e solo pazienti senza accompagnatori, hanno funzionato. Il consuntivo finale: se consideriamo il periodo febbraio-dicembre 2020 comparato allo stesso periodo febbraio-dicembre 2019, se guardiamo le attività svolte, le riduzioni più marcate sono state nell’attività chirurgica perché ovviamente, dovendo rendere disponibili le terapie intensive per pazienti Covid, non potevano essere messe a disposizione preventivamente ai colleghi chirurghi per gli interventi. Fortunatamente non è successa la stessa cosa per gli altri trattamenti come la radioterapia e la chemioterapia. Ad esempio, per le terapie infusionali, quelle fatte in ricovero sono state circa 2.200 nel 2019 e addirittura 2.300 nello stesso periodo 2020. Quelle fatte in ambulatorio, in Day Hospital dove più abitualmente le facciamo, nel 2019 sono state 40.500 e nel 2020 in piena pandemia sono state 35.600. Una leggera flessione direi fisiologica rispetto a quello che stava succedendo fuori.
Certamente i pazienti in terapia chemioterapica hanno scelto i trattamenti contro il cancro e di rischiare il virus, piuttosto che decidere per il contrario….
R. – E’ proprio così. Ci sono state due o tre settimane a marzo durante le quali si era veramente diffuso il panico: all’inizio, il più terribile della pandemia, noi eravamo qui, ma i pazienti non venivano. Dopo di che, ci hanno continuato a vedere al lavoro, tutto sommato hanno constatato che il luogo era sicuro. Hanno fatto il ragionamento che faceva lei, tra il rischio di contrarre il contagio di Covid, con tutti i pericoli e le incertezze, e purtroppo, la certezza e la sicurezza di una malattia quella oncologica che certamente non stava ad aspettare e sarebbe andata avanti. Messe queste cose sul piatto della bilancia, con tutte le difficoltà, hanno giustamente preferito continuare le cure oncologiche e correre il rischio del contagio che poi fortunatamente non c’è stato. Quindi, la scelta è stata giusta.
Professor Tortora, oggi è la Giornata mondiale contro il cancro. Il motto è “Io sono e lo farò”, una riflessione sul fatto che tutti possono e devono fare azioni concrete in questa lotta. Non solo medici, ricercatori, personale sanitario o chi ne è stato coinvolto direttamente o indirettamente. In che modo ognuno di noi si può impegnare per la lotta contro questa patologia?
R. – Io credo che ci siano due elementi fondamentali: per se stessi con gli stili di vita. Ci sono aspetti sui quali noi possiamo incidere poco come i tumori che hanno una base genetica eredo-familiare, purtroppo chi eredita il gene non può modificare il corso dei geni, e comunque sono una minoranza, sono meno del 10%, per tutti gli altri – molte cose non le conosciamo ancora – ma sicuramente un impegno su quel che riguarda gli stili di vita è qualcosa che possiamo fare e, tutto sommato, è relativamente semplice. Parlo di quegli aspetti degli stili di vita che sicuramente hanno un impatto: il fumo, un terzo di tutti i tumori dipende dal fumo. L’abuso di alcol, perché produce tutta una serie di patologie che spesso diventano a loro volta patologie predisponenti allo sviluppo dei tumori. Seguire un’alimentazione corretta e bilanciata. Abbiamo l’incredibile straordinario patrimonio di quella che è stata definita dieta mediterranea – ed è abbastanza ironico il fatto che a definirla tale siano stati dei ricercatori di altri Paesi che sono venuti in Italia e l’hanno battezzata così – che è bilanciata perché fondamentalmente consiste nell’impiego di frutta, verdura, alimenti freschi, una dieta varia, la riduzione del consumo di carni rosse, di grassi, preferire l’olio di oliva rispetto ad altri condimenti. L’attività fisica, perché si è visto che c’è una correlazione fortissima sia rispetto alla conservazione del peso, ovviamente, ma sempre di più si vede che l’attività fisica impatta su altri aspetti che innescano una sorta di circolo virtuoso che aiuta a contrastare il tumore: modifica, insieme all’alimentazione, la flora batterica intestinale che è fondamentale per contrastare il tumore. C’è un insieme di elementi semplici che si intersecano tra di loro e danno un contributo importante. Ecco almeno questo da parte nostra, possiamo farlo. Si calcola che addirittura c’è la possibilità di abbattere il rischio di contrarre un tumore fino al 50% quindi parliamo di un contributo veramente fondamentale…
La Commissione Europea ha predisposto 4 miliardi per le nuove azioni o il rafforzamento di quelle già esistenti contro il cancro. In quali campi devono essere investiti?
R. – Sta per partire questo grande progetto, il Mission Board for Cancer. C’è proprio un impegno finalizzato nel quale è stata identificata tutta una serie di risoluzioni volte a far conoscere e impattare in maniera considerevole su tutta una serie di fattori per i quali si ritiene che, nell’arco di un decennio o ventennio, si possa abbattere in una percentuale significativa l’incidenza dei tumori e poi avere un impatto anche sulla cura dei tumori. Quindi siamo in un momento in cui si stanno lanciando anche programmi di grande portata come fu negli Stati Uniti il grande programma il National Cancer Act, così si chiamava, che ha rappresentato una svolta già negli anni prima del 2000. L’Europa sta facendo un lavoro analogo e si è proiettata in avanti con questo grande progetto, in cui c’è, fondamentalmente, l’aspetto degli stili di vita, l’aspetto dell’informazione, un’altra cosa molto molto importante soprattutto nei confronti delle giovani generazioni che sono poco sensibili a questi aspetti. Tanto è vero che il consumo di alcol e l’attitudine al fumo nelle fasce più giovani e, addirittura preadolescenziali, sono in aumento. Il campo di applicazione è molto ampio e riguarda un secondo aspetto: la testimonianza. Credo che la testimonianza di quelli che hanno superato la malattia possa essere davvero importante. Oggi esiste un progetto anche in Italia che è sviluppato insieme alle associazioni dei pazienti e dei volontari, come la Favo per esempio, che si sta occupando in modo particolare di una delle risoluzioni della Mission Board for Cancer, legata proprio al survivorship e al supporto nutrizionale. E’ chiarissimo. La cura di chi è sopravvissuto e si è messo alle spalle la malattia e tutto quanto quello che può essere fatto per il supporto nutrizionale. Io penso che in questo ci sia un grandissimo potenziale di impatto. Consideriamo che in Europa le persone che vivono dopo una diagnosi di tumore sono oltre 20 milioni su una popolazione di 500 milioni di abitanti, quindi stiamo parlando di numeri enormi.