Paolo Ondarza – Città del Vaticano
La riconciliazione è la strada indicata dal Papa che dobbiamo perseguire insieme. Così il rettore della Pontificia Università Lateranense Vincenzo Buonomo, dal 1992 nel gruppo di lavoro sui popoli indigeni presso l’Onu di Ginevra, commenta il discorso di Francesco alle autorità civili, ai rappresentanti delle popolazioni indigene e al corpo diplomatico presso la Citadelle de Quebec in Canada.
Professor Buonomo, nel suo discorso alle autorità civili del Canada Papa Francesco mette in luce l’importanza dei popoli indigeni nella loro capacità di porsi in ascolto di Dio, delle persone e del Creato, rifuggendo da una mentalità di sfruttamento e votata solo al profitto. Richiama quindi alla necessità di ascoltare e dialogare, contro ogni individualismo. Come leggere queste parole?
Certamente guardando la realtà di oggi l’individualismo, il prevalere del profitto, la distruzione del sistema ecologico, compreso quello indigeno, sono gli obiettivi a cui siamo in qualche modo votati. Il discorso del Papa ci riporta invece ad una realtà diversa: e cioè come la realtà dei popoli indigeni possa essere invece un fattore per riconciliarci con le situazioni in cui viviamo.
La cultura indigena è legata essenzialmente a tre elementi: l’identità, la comunità e il rapporto con la terra. Nei suoi discorsi Papa Francesco sta mettendo in evidenza tutti e tre questi aspetti. In particolare in questa relazione ancestrale con la terra c’è proprio il recupero non solo di una difesa del territorio, una difesa dell’ambiente in senso puramente teorico, ma un modo di gestire l’ambiente, un modello di vivere comune; questo credo che sia importante soprattutto per noi che dall’esterno percepiamo la realtà indigena come qualcosa che sembra appartenere al passato piuttosto che al futuro. Il Papa ribalta questa visione. Allo stesso tempo il Papa ci avverte: non possiamo cancellare le radici. La cancellazione delle radici è il grande problema per cui noi, società della modernità, evitiamo di confrontarci: le radici molto spesso ci pongono problemi anche da un punto di vista della nostra stessa identità.
È questo il richiamo che Papa Francesco pronuncia quando mette in guardia da una colonizzazione che non si ferma, prosegue mascherata, nascosta, trasformata. Il Pontefice denuncia le colonizzazioni ideologiche, la ‘Cancel Culture’ che valuta il passato solo in base a certe categorie che sono attuali: una moda culturale che uniforma, rende uguali e poi trascura gli ultimi e i deboli. Quali sfide per le nostre società contemporanee le vengono in mente?
Innanzitutto il superare la frammentazione a cui oggi leghiamo tutti i processi: l’economia, l’educazione, eccetera. Frammentiamo l’educazione concentrandoci sulle specializzazioni che molto spesso dimenticano l’insieme. Tutto ciò favorisce un individualismo e quindi una visione strettamente legata all’interesse, piuttosto che ad una concezione del bene comune, tipica invece della mentalità indigena. Allo stesso tempo questo ci porta non soltanto ad una distruzione o cancellazione delle culture, ma anche al non saper profittare di quello che le culture danno come spinta verso la sostenibilità che è il futuro. Sostenibilità non solo ambientale ed ecologica, ma proprio per quello che riguarda la continuità della vita dell’uomo sulla terra. Il Papa fa riferimento alle sette generazioni tipiche delle culture native del Nord America: le sette generazioni che sono la prospettiva di ogni attività. Ebbene bisogna cogliere proprio l’essenza di quel riferimento, cioè ritrovare attraverso gesti, attraverso il dialogo, attraverso la relazione, la possibilità di proseguire in un cammino che sia non finalizzato a degli obiettivi, ma finalizzato al grande obiettivo che è quello della famiglia umana che può procedere e incedere nella storia.
Papa Francesco fa un richiamo importante alla tutela della famiglia naturale, cellula essenziale, fondante della società. Tante le minacce: violenza domestica, frenesia lavorativa, individualismo, disoccupazione, solitudine dei giovani, abbandono degli anziani. Anche in questo caso il male sofferto dagli indigeni è un monito perché i diritti della famiglia non siano messi da parte in nome della produttività o di interessi individuali…
Il coraggio che ha avuto il Papa non è stato quello semplicemente di denunciare qualcosa e chiedere scusa. Rispetto alla distruzione della famiglia: ad esempio il sottrarre i minori indigeni alle famiglie per portarli nelle famose scuole per la cosiddetta rieducazione. Il Papa vuole far capire come sottraendo alla famiglia la sua capacità di educare, la sua capacità di formare, la sua capacità di dare l’identità, evidentemente noi tagliamo alla radice quelle che sono le prospettive nella crescita della persona e nella crescita delle persone insieme. Il Papa sottolinea quelle che sono oggi le minacce maggiori alla famiglia e sono minacce che provengono a volte anche dalla nostra indeterminatezza e forse indifferenza rispetto a tante sollecitazioni che riceviamo dall’esterno e che molto spesso ci portano a perdere di vista gli aspetti essenziali della vita familiare: pensiamo soltanto alla solidarietà tra generazioni, il rapporto tra gli anziani e i più giovani, la capacità di poter trasmettere valori. Io credo che questi aspetti la società di oggi cerchi sempre più di limitarli per poterli sostituire con quelle che possiamo chiamare delle grandi illusioni. Perché poi alla fine nel calore della famiglia, nel focolare domestico noi ritroviamo l’essenza non soltanto di una vita per chi è religiosamente ispirato, ma per tutti: c’è la dimensione umana che viene fuori.
Tra le sfide attuali non poteva mancare il riferimento alla guerra, la follia della guerra con un richiamo a lenire gli estremismi della contrapposizione, curare le ferite dell’odio. Francesco auspica politiche creative per uscire dallo schema della contrapposizione. Oggi è possibile uscire da questa contrapposizione?
Io credo di sì. Ormai la contrapposizione è tra guerra e pace. Qui c’è un passaggio intermedio che deve necessariamente venir fuori: cioè creare le condizioni per costruire la pace. Questo significa sviluppo, significa eliminare le cause possibili e future di una guerra, garantire la stabilità dal punto di vista non soltanto economico, ma anche socio economico: la stabilità di una società. Sotto quest’aspetto l’immagine della comunità indigena può aiutarci. La comunità indigena non possiede i beni in modo esclusivo, ma mette i beni in comune. Questo è già un punto di partenza per quanto riguarda le cause dei conflitti. La comunità e la cultura indigena non vedono la possibilità di una contrapposizione anche in termini di conflitto, perché il conflitto va risolto in un rapporto tra generazioni: ad esempio gli anziani con il resto della comunità.
Il carattere globale accomuna le sfide attuali: pace, migrazioni, clima: la soluzione si trova insieme, rifuggendo la mentalità individualista. La cultura indigena ancora una volta è uno stimolo nel ricordare il valore della socialità. Potrà questo pellegrinaggio penitenziale essere di monito alle tante sfide che riguardano il nostro oggi?
Noi abbiamo bisogno di riconciliarci: innanzi tutto con noi stessi, poi con gli altri. L’idea di una riconciliazione diventa la base per un cammino comune. Credo che questo pellegrinaggio in Canada, come lo ha chiamato Papa Francesco, possa essere anche di ispirazione e di monito in tante altre realtà. Non dimentichiamo che nel mondo sono circa 300 le popolazioni indigene che hanno questo tipo di caratteristiche. Quindi anche queste potrebbero trovare ispirazione nelle loro terre nel loro rapporto con le istituzioni, con il mondo della politica e dell’economia. Le parole del Papa potrebbero avere un effetto moltiplicatore sull’intera famiglia umana.
C’è qualcosa che l’ha colpita in questa vicinanza, prossimità, gestualità di Papa Francesco in rapporto alle popolazioni indigene?
Che non si tratta di gesti convenzionali, ma è l’espressione di chi riconosce non soltanto un errore. Il caso delle scuole in Canada ad esempio è un errore che hanno riconosciuto tutte le parti che in qualche modo sono state coinvolte, non soltanto la Chiesa Cattolica. Ma qui c’è qualcosa di più. Il Papa chiede un’apertura alla riconciliazione, che non è un gesto semplice: è la strada. Dobbiamo proseguire insieme, trovando quelle che sono le forme effettive di riconciliazione e questo credo che possa essere un elemento che supera la sofferenza.