Adriana Masotti – Città del Vaticano
Era domenica, quel 19 luglio di 30 anni fa, ed erano le 16 e 59 minuti quando una Fiat 126 imbottita con circa 90 chilogrammi di esplosivo saltò in aria provocando ‘un inferno’. Il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta erano appena arrivati in via Mariano D’Amelio ed erano scesi dalle loro auto, tranne un poliziotto che stava ancora parcheggiando. L’esplosione uccide il magistrato e 5 agenti: Agostino Catalano, Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Antonino Vullo il nome dell’unico sopravvissuto.
Una lunga ricerca della verità
I trent’anni trascorsi dalla strage sono stati trent’anni di ricerca della verità e della giustizia che ha visto in prima linea i famigliari di Borsellino. Quattro i processi che si sono tenuti finora, a poco a poco è emerso quello che i giudici hanno definito “il più colossale depistaggio nella storia della Repubblica”, un depistaggio ancora senza responsabili. Lo ha confermato il 13 luglio scorso, la sentenza con cui il tribunale di Caltanissetta ha assolto uno dei tre poliziotti sotto accusa e salvando dalla condanna gli altri due grazie alla prescrizione del reato: è passato, infatti, troppo tempo dal quel 19 luglio 1992.
Per i 30 anni, in via D’Amelio amore e rabbia
In segno di protesta per la sentenza i famigliari di Borsellino hanno fatto sapere che diserteranno le cerimonie ufficiali organizzate come ogni anno per l’anniversario della strage, ma hanno promosso un’iniziativa per le 19 di stasera, presso l’albero di ulivo – simbolo di pace e di speranza – piantato nella voragine scavata dall’esplosione per volontà della moglie di Borsellino, Agnese. Il Movimento Agende Rosse ha scelto di fare memoria con una celebrazione che ha intitolato “Il Suono del Silenzio”: non ci saranno palchi, né discorsi, solo musica con la presenza del violoncellista Luca Franzetti che suonerà e commenterà le sei suites per violoncello solo di Johann Sebastian Bach, in particolare la numero 2, ispirata alla rabbia e la numero 3, ispirata all’amore, “i due sentimenti che hanno convissuto nel mio animo in questi trenta anni – ha spiegato Salvatore Borsellino, fratello del giudice – , e che grazie ai tanti giovani che incontro nelle scuole continuano a fare vivere la mia speranza”.
Centrale l’impegno educativo verso le nuove generazioni
E i giovani saranno i protagonisti dell’iniziativa organizzata in mattinata, nello stesso luogo, dal Centro Studi Paolo e Rita Borsellino: “Coloriamo Via D’Amelio: il 19 luglio per i cittadini di domani” che prosegue l’impegno educativo del Centro verso le nuove generazioni condotto dalla sorella del magistrato. L’evento vedrà testimonianze, giochi, letture all’aperto con la partecipazione anche di Salvo Piparo, attore e cantastorie palermitano. Alle ore 10.00 è prevista la visita di Patrizio Bianchi, ministro dell’istruzione.
Melati: la verità oggi è forse più vicina
“Paolo Borsellino. Per amore della verità”, nel libro scritto dal giornalista palermitano Piero Melati e pubblicato di recente dalla casa editrice Sperling & Kupfer c’è la storia di una famiglia e del suo impegno per l’affermazione del diritto alla verità. Ma c’è anche la nostra storia. Ai microfoni di Vatican News, l’autore ci spiega perchè la ricerca della verità ci coinvolge tutti e perchè, a suo parere, oggi forse è più facile la vera ricostruzione dei fatti accaduti 30 anni fa se, afferma, “usiamo la ragione, uniamo i puntini e sfruttiamo la nostra disincantata esperienza sugli esseri umani e sulle cose del mondo, al posto della più rassicurante retorica”.
Piero Melati, questo anniversario della strage di via D’Amelio è stato preceduto di pochi giorni da un fatto che lo segna in modo decisivo: la sentenza del 13 luglio scorso sul depistaggio delle indagini sull’ attentato, una sentenza che ha lasciato l’amaro in bocca ai familiari del giudice e a tutti coloro che rivendicano il diritto alla verità, che ancora non c’è. Qual è stata la sua reazione alla sentenza?
Intanto è una sentenza che teniamo conto viene dopo ben 14 processi e, diciamo, la vicenda di via D’Amelio sin dall’inizio è stata segnata com’è noto da un depistaggio, ormai sancito anche da un verdetto della Cassazione, quindi da lunghi anni in cui, si è poi scoperto, si eeguivano false piste e si era costruito un pentito fasullo, che si chiamava Vincenzo Scarantino, poi soltanto al Borsellino quater si è scoperto che erano stati condannati all’ergastolo per la strage addirittura degli innocenti e s’è dovuto ricominciare da capo in qualche maniera. Perdita di te su perdita di tempo, non a caso quest’ultimo verdetto è caratterizzato dalla prescrizione: rispetto al reato che veniva contestato ai poliziotti accusati di avere gestito questo finto pentito era passato troppo tempo, ed è caduta l’aggravante di aver favorito la mafia che non avrebbe consentito l’applicazione della prescrizione. Il commento anche delle parti civili, dell’avvocato Fabio Trizzino che è il difensore della famiglia Borsellino, è che probabilmente la verità giudiziaria è stata ormai irrimediabilmente inquinata, distrutta, è arrivato forse il momento in cui tutti noi dovremmo occuparci invece di una verità storica che, paradossalmente, forse 30 anni dopo la strage è più facile oggi vedere.
Lei sostiene questa tesi che, appunto, sia arrivato il momento e sia necessario oggi ricostruire almeno la verità storica di quella strage…
L’importanza della verità storica, non è una cosa che riguarda soltanto i figli di Paolo Borsellino, è una cosa che riguarda la memoria di questo magistrato che si è sacrificato, che riguarda in qualche modo anche l’integrità dei suoi figli e dei suoi nipoti che da 30 anni vivono con questo macigno sulle spalle: non solo la mutilazione della perdita del padre e dei suoi agenti di scorta, ma anche tre decenni di combattimenti, di sofferenza, di accuse che sono state fatte anche a loro, e poi riguarda un popolo perché è difficile che un popolo riesca a uscire dalle proprie tragedie, se non riesce a ricostruirle e ad avere almeno una verosimiglianza di quegli accadimenti. Quella strage è maturata in un passaggio di regime, diciamo così, dalla prima alla seconda Repubblica, un passaggio storico importante e decisivo e, probabilmente, forze che ancora rispondevano alle logiche della vecchia Repubblica hanno lavorato perché i processi giudiziari non arrivassero alla verità. Oggi, leggendo le carte, ma anche ragionando con il lume della ragione, ricostruendo questi frammenti si può trovare un filo logico che può spiegarci tante cose.
Ed è proprio quello che lei nel suo libro “Paolo Borsellino. Per amore della verità”, vuol offrire, cioè il contesto in cui è successo quello che è successo 30 anni fa. E’ così?
Prima di tutto io ho cercato di ricostruire i 30 anni di tormenti che hanno passato i figli di Paolo Borsellino, Lucia, Manfredi e Fiammetta, perché hanno vissuto in uno stato d’assedio, con il timore della mamma Agnese che potesse accadere qualcosa a loro, stretti da un cordone sanitario di rappresentanti delle istituzioni alcuni dei quali avevano interesse non tanto ad esprimere solidarietà, quanto a controllarli, ad evitare che dicessero qualcosa, o che mettessero in discussione, quando ancora nessuno l’aveva scoperto, che era in corso un depistaggio delle indagini. Poi loro sono cresciuti, sono diventati grandi, maturi, più forti e hanno iniziato a riflettere su quello che era successo e attraverso le loro parole, le loro riflessioni, le novità che sono uscite dai processi, ci danno oggi anche una chiave di lettura sugli ultimi 57 giorni del padre, su cosa indagava Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci. Per questo dico che alcuni frammenti di verità, attraverso le loro parole, oggi possono essere ricostruiti.
Volendo riassumere in poche parole questa verità storica, che cosa possiamo dire?
Due cose si sanno certamente: Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci disse alcune frasi che ci fanno almeno riflettere sul fatto che stava seguendo una pista che riguardava il denaro, i narcodollari. In Sicilia dagli anni Settanta succede una cosa che poi determinerà anche la lunga guerra di mafia e gli omicidi eccellenti degli anni ’80. Le raffinerie di droga vengono trasferite da Marsiglia alla Sicilia e la mafia siciliana inventa il grande traffico internazionale di stupefacenti, quello che poi oggi ha ereditato la ‘Ndrangheta calabrese, i cartelli messicani, i cartelli colombiani ecc… Questi soldi andavano riciclati e per ben tre volte il sogno di Cosa nostra è non solo di riciclarli, ma di entrare nei salotti buoni della finanza internazionale. Ci tenta con Michele Sindona, il bancarottiere siculo-americano; ci tenta con Roberto Calvi, nell’ultima fase quella imminente alle stragi del 1992 ci tenterà di nuovo irrorando di narcodollari dalla Sicilia grandi aziende del nord. Borsellino ha fatto una battuta alla sorella di Giovanni Falcone, Maria Falcone, prima di morire dicendole: “altro che Tangentopoli e Tangentopoli, vedrete che cosa scoprirò”. E’ possibile che attraverso un’inchiesta dei carabinieri che si chiama ‘Mafia appalti’ questo accordo tra la mafia e le imprese del Nord, passasse attraverso il sistema del mettersi d’accordo sugli appalti pubblici, ma con una differenza rispetto al nord: mentre al nord le imprese pagavano tangenti per avere lavori pubblici – ed è questo il cuore della grande inchiesta di Mani Pulite del 1992 di Milano – in Sicilia c’era un’altra gamba che era la mafia, ma la mafia non chiedeva soltanto di avere lavori per se stessa o di avere tangenti sui lavori pubblici che si svolgevano, usava questo meccanismo per dare soldi perché aveva bisogno di investire questi enormi capitali ricavati dal traffico internazionale di droga. Ed è possibile che Borsellino seguisse questa pista come già Falcone stava seguendo. Succede un’altra cosa in quel periodo storico: va in Cassazione la sentenza del grande maxiprocesso di Palermo iniziato nel 1986 e quindi la mafia che pensava che sarebbe stata assolta in Cassazione, quando le condanne vengono confermate, scatena una campagna di aggressione, di vendetta. Questo è un aspetto che spiega le stragi, ma non spiega l’accelerazione, dopo la grande strage di Capaci, di via D’Amelio che invece sembra una strage fatta per evitare che si scoprisse qualcosa. A questo proposito, i figli di Borsellino citano le parole del padre che diceva che la procura di Palermo dell’epoca era “un nido di vipere”, cioè lui era convinto che pezzi delle istituzioni fossero complici di questo giro d’affari e volessero in qualche modo impedire che venisse scoperchiato.
Lei pensa che poter dire tutto questo potrebbe aiutare oggi la rinascita morale delle istituzioni, dell’Italia come Stato?
Io ne sono convinto. Per tanti anni noi siamo stati figli di una ricostruzione di quel periodo storico molto semplificato, come se ci fossero dei buoni che combattevano contro i cattivi, questi buoni magari non sono stati tanto aiutati, quindi sono finiti male, però poi lo Stato si è accorto di quello che avevano fatto e ha sopperito a questa mancanza. Probabilmente questa specie di di western nazionale che si sarebbe svolto in Sicilia è servita in una certa fase per saturare la ferita delle stragi del ’92 che sono state devastanti, quindi allora serviva forse una narrazione più semplificata. Oggi avremmo bisogno di una narrazione più approfondita che non solo celebri gli eroi, ma spieghi anche quei meccanismi che in fondo sono semplici, che hanno portato delle volte al loro isolamento. Probabilmente ci sono stati uomini delle istituzioni nel ’92 che temevano di finire sotto la vendetta della mafia che uccise, per esempio, Salvo Lima che era il deputato andreottiano simbolo degli Intrecci tra mafia e politica, è possibile che altri uomini delle istituzioni si spaventassero di fare la stessa fine e avessero indicato indirettamente in Paolo Borsellino, invece, l’unico vero pericolo che poteva scoperchiare questa pentola. Così come, negli anni del depistaggio dell’indagine sulla strage di via D’Amelio, è possibile che tanti inquirenti non fossero coscienti di stare depistando e hanno cercato di difendere il loro operato. Io credo che ci sia un combinato disposto di tutte queste cose di cui tenere conto. Forse oggi possiamo cominciare a tenerne conto più di ieri e credo che questo farebbe solo del bene alle istituzioni.
E c’è una richiesta che lei si sente di rivolgere alle istituzioni…
Sì, perchè c’è un dato che a me colpisce molto: ormai avendo acclarato che un depistaggio comunque c’è stato, forse è arrivato il momento di riconoscerlo, di sanare una frattura che a me pare eccessiva. Cioè nessun rappresentante delle istituzioni dello Stato Italiano, a fronte del fatto che il depistaggio è ormai acclarato, ha chiesto scusa alla memoria del giudice Paolo Borsellino e dei suoi figli. Sembra un atto sciocco, formale, ma gli Stati l’hanno sempre fatto davanti all’olocausto, ad esempio, davanti agli scandali della pedofilia ecc… è un rito che può sembrare sciocco ma invece ha la sua importanza, soprattutto per tentare di reintegrare il dolore dei parenti delle vittime.
E invece come società civile, in che modo possiamo tutti noi raccogliere l’eredità di Paolo Borsellino, ricordarlo, diciamo, in maniera non ipocrita?
A me colpisce sempre un fatto che ho ricavato dai racconti dei figli e dai ricordi, dalle ricostruzioni: Borsellino anche nei suoi ultimi giorni di vita è sempre stato ottimista. Pochi giorni prima della strage di via D’Amelio, a proposito di una frase che diceva il commissario Ninni Cassarà, un altro dei caduti nella lotta alla mafia, che una volta gli disse: “siamo cadaveri che camminano”, Borsellino rispose “anch’io direi questa frase, però la direi con più ottimismo, perché sono convinto che persone come me ce ne sono tante e continueranno a fare il loro dovere anche se questo dovesse costare il prezzo più alto”. Io credo che lui fosse estremamente convinto che dentro la società ci fossero allora, come ci sono ancora oggi, gli anticorpi per aiutare le istituzioni a rappresentarci veramente. Lui ne era convinto e, secondo me, lui si è sacrificato per questo, ed è questa la lezione che ci lascia, così come ci ha lasciato una lezione riguardo all’amministrare la giustizia in modo umano. Io ho raccolto testimonianze di gente che diceva: “Borsellino, non avrebbe mai mandato a processo un sospettato se non aveva prove o riscontri. Borsellino avrebbe testimoniato persino a favore di un mafioso se pensava che in quell’episodio specifico, quel mafioso non c’entrava nulla”. È un’idea di giustizia che, paradossalmente, lo avvicina ad un personaggio come Leonardo Sciascia, con il quale in vita ha avuto delle polemiche – poi si sono chiariti -, erano due uomini alla ricerca di una giustizia più giusta, più umana, e questi sono insegnamenti che secondo me non si possono cancellare.
Ecco, nel suo libro lei offre al lettore un ritratto corale del giudice palermitano. Volendo sintetizzare tutte queste voci, quale figura emerge?
L’umanità, la profonda umanità di quest’uomo. Lei sai che ad un certo punto della sua vita Fiammetta Borsellino è andata a incontrare in carcere i carnefici del padre, i fratelli Graviano, un fatto senza precedenti nella storia della mafia e dell’antimafia. E io credo che sia andata lì per vedere l’altro da sé, lei ha detto: “io non pensavo che mi dicessero ulteriori verità perché non le hanno mai dette, non pensavo di scaricare su di loro la mia rabbia, non pensavo neanche di perdonarli perché chi sono io per perdonare”. Però ha fatto una cosa che il padre aveva fatto tante volte. Cioè incontrare la persona totalmente diversa da sé stesso per non considerarlo un mostro, per cercare di capire da che parte della società viene il male e per cercare di cambiarlo. E questa cosa Borsellino l’ha fatta sempre e l’ha fatta sempre con grande umanità persino verso i mafiosi che arrestava, persino verso i mafiosi che interrogava. E credo che questa lezione di umanità sia pari a quella di Primo Levi, di questi grandi personaggi della storia che ci hanno lasciato poi qualcosa che è una speranza. Io credo che lui abbia fatto questo per noi.