Tito Brandsma, profeta di pace e modello di giornalismo in tempi di guerra e fake news

Vatican News

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Un martire, un eroe, un apostolo di pace e un giornalista anti-regime. Ma anche un mistico, un promotore del dialogo ecumenico e, dal 15 maggio, un santo per la Chiesa universale. Di padre Tito Brandsma – che il Papa canonizzerà domani a San Pietro insieme ad altri dieci beati – si è detto tanto e si è scritto ancora di più. Rimane comunque ancora troppo poco per conoscere pienamente la figura di questo carmelitano olandese, morto nell’orrore di Dachau. Lo afferma anche padre Fernando Millán Romeral, vice postulatore della causa di canonizzazione, che di padre Brandsma ha scritto uno dei libri più noti, “Il coraggio della verità”, tradotto in numerose lingue. “Ora, sto lavorando a una biografia più estesa”, racconta Millán, ospite di Radio Vaticana – Vatican News, rivelando dettagli e sfumature poco note di colui, che con affetto, chiama sempre “padre Tito”.

Ascolta l’intervista a padre Fernando Millán Romeral

Il 15 maggio padre Brandsma viene canonizzato. In molti, soprattutto nella sua Olanda, lo acclamavano già come santo, soprattutto per l’impegno contro il regime nazista e per la pace. Quale significato ha quindi la canonizzazione di una simile figura in un mondo ferito dalla guerra?

Penso che sia molto significativo perché padre Tito è stato un apostolo della pace in un’Europa violenta, convulsa. Prima che Hitler salisse al potere, nel 1931 tenne un’importante conferenza in cui, in modo quasi profetico, disse che l’Europa si incamminava verso la guerra se non cambiava mentalità. La guerra non è inevitabile, diceva, e non era d’accordo con il vecchio adagio latino: Si vis pacem, para bellum. No, se si vuole la pace, si prepara la pace, si lavora per la pace. E la pace che padre Tito chiedeva non era solo quella basata su accordi e trattative, seppur importanti, ma una pace frutto della conversione del cuore. In questi giorni terribili che viviamo in Europa, credo che questo messaggio sia molto attuale.

Un uomo di riconciliazione, dunque, ma anche un giornalista che ha speso tante energie per questa professione…

Era giornalista di professione e vocazione, innamorato di questo mestiere. Ha lavorato molto perché la stampa cattolica fosse luogo di incontro e comprensione. Aveva una visione molto elevata, etica direi, di una stampa a servizio della verità, non aggressiva ma propositiva, che dicesse la verità con serenità. È quello che lui ha fatto, confrontandosi con coraggio con il governo nazista a cui disse dei “no” in momenti molto pericolosi. Cosa che infatti l’ha portato alla morte. Lui però non ha mai rinunciato alla verità.

Un bell’esempio in un’epoca di fake news e propaganda, in cui si combatte una guerra anche di informazione…

Certamente è un invito ad avere stima di questa professione così bella e importante. Padre Tito ne aveva ed è stato un pioniere perché ha voluto aprire una cattedra di giornalismo. Molti pensavano fosse un visionario… Adesso tutte le grandi Università hanno corsi di giornalismo.

A Roma si è svolto recentemente un convegno organizzato da Ambasciata dei Paesi Bassi presso la Santa Sede e Aigav (Associazione Internazionale dei Giornalisti Accreditati in Vaticano) in cui è stata lanciata la proposta che Brandsma sia proclamato “patrono dei giornalisti”. Cosa ne pensa?

Per qualcuno è stata una sorpresa perché pensava che già fosse co-patrono dei giornalisti, con San Francesco di Sales. Giovanni Paolo II stesso lo definì “martire della libertà di stampa”. È bello che i giornalisti facciano questa richiesta. Ricordo che da giovane venni a Roma per la beatificazione e mi colpì che il servizio al Tg iniziava dicendo: “Oggi un nostro collega è salito alla gloria degli altari”. Una sana fierezza di essere giornalisti. Spero che questa richiesta abbia successo.

Parlava della “sfida” di padre Tito Brandsma alla dittatura nazista. Può essere anche questo un modello da seguire negli attuali tempi di guerra?

Mi torna in mente il dialogo con l’agente giudiziale tedesco incaricato di interrogarlo. Padre Tito disse: come Chiesa rispettiamo il governo, seppur di occupazione, purché non metta in gioco i principi della Chiesa; in quel momento ci riserviamo il diritto di non obbedire, accettando le conseguenze. Una posizione umile ma chiara, tollerante ma ferma. Ha dimostrato che ci sono alcuni principi sacri sui quali non si può negoziare, come la vita degli esseri umani, la difesa degli emarginati. Penso che il suo stile possa essere utile oggi: dialogo fino all’estremo ma sempre salvaguardando i principi fondamentali.

C’è il rischio che questa sua resistenza possa essere vista come politica?

Sì, c’è questo rischio e c’è stato anche nel processo di beatificazione. Dall’Università di Nimega dove insegnava si è detto che Brandsma era morto in difesa della patria, dell’indipendenza dell’Olanda. Questo ha fatto scattare un allarme. Ma in tutte le procedure della causa di beatificazione è stato ampiamente attestato che ogni azione aveva una radice di fede. Mi ha colpito, in tal senso, che nel processo hanno deposto parecchi protestanti che lo hanno conosciuto nel campo di concentramento. Testimonianze bellissime… Uno di loro disse: noi non crediamo in queste beatificazioni, ma posso assicurare che quell’uomo era toccato dalla grazia di Dio, spero di essere degno di trovarlo in Paradiso.

Quindi c’è anche un aspetto ecumenico nella vita di Tito Brandsma?

Certo. Lui ha sempre avuto grande attenzione, delicatezza e vicinanza verso i fratelli riformati, in tempi in cui la Chiesa cattolica non aveva una grande sensibilità ecumenica. Pensi che quando preparò una lettera contro il governo nazista, consultò i membri delle altre Chiese. Anche in questo è stato un pioniere.

Messaggero di pace, giornalista, promotore del dialogo, cos’altro c’è da scoprire di questa figura? Cos’altro lei ha scoperto nelle sue ricerche per il libro e anche nel lavoro per la postulazione?

C’è tanto ancora da approfondire. Padre Tito è una figura dalle mille sfaccettature. Ad esempio, mi ha incuriosito sapere che era un “esperantista”, un appassionato dell’esperanto, dell’idea di una lingua universale che portava i popoli a unirsi, a comprendersi e a dialogare, e non a dividersi. Ha partecipato a incontri e conferenze, ha aiutato a tradurre molte preghiere. Anche padre Massimiliano Kolbe era appassionato di esperanto. Un altro aspetto è quello devozionale, come professore di storia della Mistica studiò molto santa Teresa d’Avila, di cui era devotissimo. Tradusse i suoi scritti in olandese moderno e santa Teresa ebbe grande influenza su di lui, come si nota nel Poema scritto in carcere, in cui si parla di intimità con Gesù, di condividere le sofferenze di Gesù in croce. In quei versi appare l’uomo mistico, aspetto messo spesso in discussione perché padre Tito era iperattivo. Molti lo criticavano dicendo che era “disperso”.

In che senso?

Era professore all’Università, assistente ecclesiastico della stampa cattolica, scriveva, portava avanti la pastorale, aiutava gli immigrati italiani in Olanda. Gli hanno chiesto tantissime cose e lui ha sempre accettato con generosità. Disperso, sì, in mille attività e situazioni, ma al contempo un uomo che ha curato molto l’interiorità. Giovanni Paolo II nell’omelia della beatificazione disse infatti che un eroismo simile non si improvvisa ma è frutto di tutta una vita di intimità con Dio.

Ecco, proprio questo eroismo di Brandsma oggi è realizzabile? Guardando sempre all’attualità, vediamo tanti sacerdoti, tanti religiosi, che soffrono in Ucraina e restano sotto le bombe per non abbandonare la popolazione. Possono trarre spunto dalla figura del nuovo santo?

Tutti possono, anzi, tutti possiamo prendere ispirazione da padre Tito, in prima linea nella guerra o nella vita di tutti giorni. Tito Bransdma offre una testimonianza di fiducia in Dio, ma di fiducia attiva che si traduce nel darsi da fare. Anche nei lager, dove, come ci riportano le testimonianze dei sopravvissuti, le persone diventavano aggressive, lui ha mantenuto la calma e la serenità, ha incoraggiato a non perdere la speranza e anche il buonumore fino all’ultimo istante. Un carmelitano, anch’egli prigioniero, che lo accompagnò nell’infermeria dove poi gli fu somministrata l’iniezione letale, gli disse che era triste e padre Tito rispose: tranquillo, fratello, ad agosto saremo tutti a casa. Lui, è vero, è andato a casa, ma nella Casa del Padre.