Antonella Palermo – Città del Vaticano
Nella chiesa madre della Compagnia di Gesù – il “Gesù all’Argentina” a Roma – Papa Francesco concelebra la Santa Messa per i quattrocento anni dalla canonizzazione dei gesuiti Ignazio di Loyola e Francesco Saverio, della carmelitana scalza Teresa d’Avila, dell’oratoriano Filippo Neri e del laico Isidoro l’agricoltore. A presiedere il rito è il Preposito della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa.
E’ il Vangelo della Trasfigurazione ad offrire al Papa, nell’omelia, l’occasione per riflettere su quattro azioni compiute da Gesù, da cui poter trarre utili indicazioni: prendere in mano ogni giorno la nostra chiamata personale e la nostra storia comunitaria; salire verso i confini indicati da Dio uscendo da noi stessi; pregare per trasformare il mondo in cui siamo immersi; restare, ovvero essere attenti a custodire l’essenziale nella vita, che non passa.
I rimpianti e le nostalgie paralizzano il cammino
Il Papa ricorda che l’azione di diventare discepoli parte sempre da Gesù, che ama, sceglie e chiama. Francesco richiama l’attenzione a ciò che c’è all’origine del mistero vocazionale: la grazia, un’elezione, che anticipa qualsiasi nostra decisione. “E’ stato Lui a chiamarci, senza meriti nostri. Prima di essere quelli che hanno fatto della vita un dono, siamo coloro che hanno ricevuto un dono gratuito”, dice il Papa. Dio ci conduce per mano alla destinazione del percorso cristiano che è “il suo monte santo, dove già ora ci vede per sempre con Lui, trasfigurati dal suo amore”.
Lì ci conduce la grazia. Allora, quando proviamo amarezze e delusioni, quando ci sentiamo sminuiti o incompresi, non perdiamoci in rimpianti e nostalgie. Sono tentazioni che paralizzano il cammino, sentieri che non portano da nessuna parte. Prendiamo invece in mano la nostra vita a partire dalla grazia. E accogliamo il regalo di vivere ogni giorno come un tratto di strada verso la meta.
Sentire con la Chiesa, non da solisti, ma come lievito di fraternità
Il Papa insiste sulla bellezza della dimensione comunitaria in cui è radicata la chiamata, alla luce del fatto che Gesù “prende i discepoli insieme”. Da qui il pontefice sottolinea ai suoi confratelli gesuiti che “occorre far rivivere la grazia di essere stati presi nella Chiesa, nostra santa Madre gerarchica, e per la Chiesa, nostra sposa. Siamo di Gesù, e lo siamo come Compagnia”.
Non stanchiamoci di chiedere la forza di costruire e custodire la comunione, di essere ‘lievito di fraternità’ per la Chiesa e per il mondo. Non siamo solisti in cerca di ascolto, ma fratelli disposti in coro. ‘Sentiamo con la Chiesa’, respingiamo la tentazione di inseguire successi personali e di fare cordate. Non lasciamoci risucchiare dal clericalismo che irrigidisce e dalle ideologie che dividono.
Sono parole che il Papa fa risuonare mentre definisce i Santi ricordati oggi ‘pilastri di comunione’: “ricordano che in Cielo, nonostante le nostre diversità di caratteri e di vedute, siamo chiamati a stare insieme”. Proprio questo legame della vita eterna che ci è stata promessa possiamo cominciare a sperimentarlo fin da ora, suggerisce il Papa.
Lasciare ogni abitudine rassicurante
Sul verbo salire Francesco si sofferma anche usando immagini metaforiche. “La strada di Gesù non è in discesa, è un’ascesa – precisa – la luce della trasfigurazione non arriva in pianura, ma dopo un cammino faticoso”.
Per seguire Gesù bisogna dunque lasciare le pianure della mediocrità e le discese della comodità; bisogna lasciare le proprie abitudini rassicuranti per compiere ‘un movimento di esodo’.
“Solo la salita della croce conduce alla meta della gloria”, continua il Papa, rimarcando che la tentazione mondana è ricercare invece la gloria senza passare dalla croce. Poi, guardando a come il Signore fece uscire Abramo dalla sua terra, spiega:
Noi vorremmo vie note, diritte e spianate, ma per trovare la luce di Gesù occorre continuamente uscire da sé stessi e salire dietro di Lui.
Compiere l’esodo, ricercare “scomodamente” Dio
L’uscita e la salita caratterizzano il percorso specifico del carisma ignaziano: ben consapevole ne è il Papa gesuita che in questa omelia ricorda come nella Scrittura “la cima dei monti rappresenta l’estremità, il limite, il confine tra terra e cielo”. E torna ad esprimere il medesimo invito:
Noi siamo chiamati a uscire per andare proprio lì, ‘ai confini tra terra e cielo’, lì dove l’uomo “affronta” Dio con fatica, affronta Dio con fatica; a condividere la sua ricerca scomoda e il suo dubbio religioso. Lì dobbiamo essere e per farlo occorre uscire e salire. Mentre il nemico della natura umana vuole convincerci a tornare sempre sugli stessi passi, quelli della ripetitività sterile, della comodità, del già visto, lo Spirito suggerisce aperture, dà pace senza lasciare mai in pace, invia i discepoli agli estremi confini. Pensiamo a Francesco Saverio.
Qui Francesco ricorda quanto Abramo lottò per fare questa strada. E ripete quanto sia importante “lottare per difendere questo cammino, questa strada di consacrazione al Signore”.
Il rischio di una fede “parcheggiata”
Francesco osserva che questo bivio costantemente, in ogni epoca, si presenta al discepolo. Individua il pericolo di una fede statica, e usa il termine “parcheggiata” per definirla in modo iconico. Arriva a dire di aver paura delle fedi parcheggiate.
Il rischio è quello di ritenersi discepoli “per bene”, che in realtà non seguono Gesù ma restano fermi, passivi e, come i tre del Vangelo, senza accorgersi si assopiscono e dormono. Anche nel Getsemani, questi stessi discepoli, dormiranno. Fratelli, per chi segue Gesù non è tempo di dormire, di lasciarsi narcotizzare l’anima, di farsi anestetizzare dal clima consumistico e individualistico di oggi, per cui la vita va bene se va bene a me; per cui si parla e si teorizza, ma si perde di vista la carne dei fratelli, la concretezza del Vangelo. Un dramma del nostro tempo è chiudere gli occhi sulla realtà e girarsi dall’altra parte.
Poi, l’invocazione a Santa Teresa, affinché “ci aiuti a uscire da noi stessi e a salire sul monte con Gesù, per accorgerci che Lui si rivela anche attraverso le piaghe dei fratelli, le fatiche dell’umanità, i segni dei tempi”. Il Papa invita a non avere paura di toccare le piaghe, perché – dice – sono le piaghe del Signore.
Pregare è portare il palpito della cronaca a Dio
Quanto il Papa dice a proposito del pregare non può non fare riferimento anche al dramma della guerra di questo tempo. Anche la preghiera può diventare abitudine, osserva Francesco, che invita a chiedersi cosa voglia dire, dopo tanti anni di ministero, per noi pregare.
Forse la forza dell’abitudine e una certa ritualità ci hanno portati a credere che la preghiera non trasformi l’uomo e la storia. Invece pregare è trasformare la realtà. È una missione attiva, un’intercessione continua. Non è distanza dal mondo, ma cambiamento del mondo. Pregare è portare il palpito della cronaca a Dio perché il suo sguardo si spalanchi sulla storia. Ci farà bene domandarci se la preghiera ci immerge in questa trasformazione; se getta una luce nuova sulle persone e trasfigura le situazioni. Perché se la preghiera è viva, “scardina dentro”, ravviva il fuoco della missione, riaccende la gioia, provoca continuamente a lasciarci inquietare dal grido sofferente del mondo. Chiediamoci come stiamo portando nella preghiera la guerra in corso.
Lo dice due volte, Papa Francesco: come stiamo portando nella preghiera la guerra in corso? E si richiama allo stile di San Filippo Neri a cui la preghiea dilatava il cuore facendogli aprire le porte ai ragazzi di strada, può essere di aiuto. Oppure quello di Sant’Isidoro, che pregava nei campi e portava il lavoro agricolo nella preghiera.
Concentrarsi sull’essenziale
Infine Papa Francesco si concentra sull’ultima risonanza suscitata dal brano biblico della liturgia odierna: quella immagine di Gesù che resta. “Il Vangelo termina riportandoci all’essenziale”, dice il Papa e aggiunge:
Siamo spesso tentati, nella Chiesa e nel mondo, nella spiritualità come nella società, di far diventare primari tanti bisogni secondari. Rischiamo, in altre parole, di concentrarci su usi, abitudini e tradizioni che fissano il cuore su ciò che passa e fanno dimenticare quel che resta. Quanto è importante lavorare sul cuore, perché sappia distinguere ciò che è secondo Dio, e rimane, da quello che è secondo il mondo, e passa!
L’invocazione ultima richiama quella “eredità preziosa” che è il discerimento ignaziano: che Sant’Ignazio ci aiuti a custodirlo, “tesoro sempre attuale da riversare sulla Chiesa e sul mondo”. E’ quella lente che permette di “vedere nuove tutte le cose in Cristo”. Il Papa conclude la sua omelia esprimendo la convinzione dell’essenzialità del discernimento, “per noi stessi e per la Chiesa”. E qui cita Pietro Favre: «Tutto il bene che si possa realizzare, pensare od organizzare, si faccia con buon spirito e non con quello cattivo» (Memorial, Paris 1959, n. 51).
Gli auguri di Padre Sosa al Papa per i nove anni di pontificato
Alla conclusione della Messa, il Preposito della Compagnia di Gesù si è fatto portavoce della gratitudine al “Signore che continua ad accompagnarci in questa profonda conversione interiore”. A nome dei gesuiti e di tutta la famiglia ignaziana, il ringraziamento al Santo Padre per la presenza a questa celebrazione, “segno del suo costante e premuroso accompagnamento al servizio della Chiesa”. E, alla vigilia del nono anniversario dell’elezione come vescovo di Roma, Sosa ha chiesto tanta grazia nel compiere il suo ministero petrino. Inoltre, il gesuita ha invocato, secondo le indicazioni dello stesso Loyola, “la grazia di vedere tutte le cose in Cristo” in questo tempo – ha detto – pieno di sorprese in cui viviamo. Poi, ancora, la preghiera a Maria di Nazareth “per la quale nulla è impossibile”. Infine, Sosa ha presentato al Papa una decina di donne in fuga da guerre e persecuzioni accolte dal Centro Astalli. Hanno donato a Francesco il catalogo della mostra fotografica Volti al futuro, simbolo dell’impegno di uomini e donne in quarant’anni di attività per i rifugiati, e una borsa di tela colorata realizzata insieme nel periodo della pandemia: un frutto, anche questo, di impegno costante per la pace.