Alessandro Gisotti
“La prima vittima della guerra è la verità”. Lo affermava Eschilo duemilacinquecento anni fa e lo si può ripetere per ogni guerra combattuta da allora. Quella in Ucraina non fa eccezione. La prima vittima è la verità della persona, delle comunità, della convivenza pacifica, tutte trucidate in nome di interessi ammantati da giustificazioni storiche e identitarie che, prima o poi, il tempo si prende il compito di sbugiardare con il suo inesorabile giudizio. Intanto però la gente muore, gli innocenti soffrono e il terrore si diffonde.
In questa tragica situazione nel cuore dell’Europa, così come e ancor più in tante guerre presto dimenticate perché combattute in aree considerate “non rilevanti” per gli assetti geopolitici, l’informazione ha un compito fondamentale, come ricordato in modo eclatante l’anno scorso dall’assegnazione del Premio Nobel per la Pace proprio a due giornalisti impegnati nella ricerca della verità in contesti drammaticamente difficili. Una guerra (e i suoi orrori) in qualche modo “non esiste” per il resto dell’umanità se non c’è qualcuno a raccontarla.
Dobbiamo allora essere grati a quei giornalisti che, in questi giorni, correndo anche rischi per la propria vita, ci informano dal territorio ucraino innanzitutto sulle sofferenze della popolazione, dando voce a chi altrimenti non potrebbe far “sentire” al mondo il proprio dolore, la propria disperazione per una guerra tanto insensata quanto feroce nei suoi effetti. “È vitale – ha sottolineato l’EBU, l’organizzazione che associa le radio e tv pubbliche europee – che i giornalisti possano continuare ad operare liberamente e in sicurezza e riferire senza impedimenti. Sostenere la libertà dei media deve essere una priorità, non nonostante queste circostanze difficili, ma proprio a causa di esse”.
Non è infrequente che reporter in aree di conflitto siano toccati da ciò che vedono, da ciò che ascoltano e condividano queste emozioni nei loro servizi, nei loro articoli. Questo non toglie valore alla qualità del loro lavoro. Tutt’altro. E’ l’empatia di chi, pur nell’esercizio di una professione che richiede obiettività e un certo “distacco”, non può, anzi non deve restare indifferente alle sofferenze, alle storie delle persone. Papa Francesco ha più volte riconosciuto questo ruolo, questa “missione” – come l’ha definita – dei giornalisti in particolare di quelli che “consumano le suole delle scarpe” per incontrare le persone dove e come sono. A volte, questa missione può costare la vita. Come è successo ad Anna Politkovskaja che per raccontare l’orrore di un’altra guerra, quella in Cecenia, è stata assassinata. Sono passati quindici anni da quell’omicidio. Non è stato ucciso però il suo spirito, quello che le faceva dire (e testimoniare con il suo lavoro) che “compito di un dottore è guarire i pazienti, quello di un giornalista è scrivere ciò che vede”.