Gabriella Ceraso e Andrea De Angelis – Città del Vaticano
Notti di scontri e centinaia di arresti in diverse città. Questa è la cronaca della Tunisia degli ultimi giorni e delle ultime notti. Perché in strada i giovani tunisini scendono la notte a gridare il loro disagio e la fame che ritengono peggio del Covid. Con una voce sofferta ma con la certezza che il Paese ha tante energie per risollevarsi, parla a Vatican News l’arcivescovo di Tunisi. “Le proteste sono iniziate nel decimo anniversario della cosiddetta primavera araba, che però si è rivelata più essere un autunno per i giovani di questo Paese”, afferma monsignor Ilario Antoniazzi. Sassaiole, esplosioni, pneumatici dati alle fiamme. I giovani scendono in strada nonostante il coprifuoco in vigore per fronteggiare la pandemia di Covid-19. Molti degli arrestati sono minorenni, secondo quanto riferito dal ministero dell’Interno. “Sembra che abbiano perso tutte le speranze” racconta il presule, che invoca uno scatto interno di coscienza oltre che un indispensabile aiuto internazionale.
Le ragioni delle proteste
Lo sfondo di povertà del Paese di cui parla monsignor Antoniazzi si mescola ora alla pandemia dai contorni incerti e numeri record nelle ultime settimane. Emergenza sanitaria che ha esacerbato le tensioni nel Paese africano. La disoccupazione giovanile ha toccato quota 35%, un cittadino su cinque è al di sotto della soglia della povertà, il turismo è ai minimi storici. Una crisi economica e sociale che si registra anche nei numeri delle persone che lo scorso anno hanno deciso di lasciare il Paese diretti verso l’Italia: il quadruplo rispetto al 2019. Il Viminale ha riferito che il gruppo più ampio di richiedenti asilo in Italia è proprio quello dei tunisini.
Illusioni e delusioni
Nell’intervista, monsignor Antoniazzi spiega l’origine delle recenti proteste e descrive la società tunisina. La perdita della speranza nei giovani è un elemento su cui la Chiesa è chiamata a lavorare molto, per non tradire la sua missione. Una Chiesa che, sottolinea l’arcivescovo di Tunisi, ha acquisito con il passare del tempo un ruolo sempre più importante ed autorevole nel Paese africano.
R. – Le manifestazioni sono cominciate durante il decimo anniversario della primavera araba, la scorsa settimana. Primavera solo nel pensiero di chi la iniziò, ma che con il passare del tempo si è rivelata essere più che altro un autunno. Ha provocato infatti grandi illusioni e delusioni, soprattutto nei giovani che si aspettavano una società migliore, si aspettavano di avere un ruolo maggiore nella politica, soprattutto un lavoro. Tutto questo non si è avverato ed oggi, anche a causa della pandemia, le persone soffrono la fame. Questa notte, durante le manifestazioni, addirittura alcuni giovani urlavano che è meglio morire di Covid che di fame, perché con il coronavirus si muore presto, mentre con la fame ci vuole più tempo. Ciò ci indica a che punto è arrivata la sofferenza e come tanti giovani abbiano perso la speranza. Loro danno l’impressione che la speranza sia morta anche se si dice che “speranza è l’ultima a morire”. C’è poca fiducia nel futuro e questo è molto triste perché la Tunisia ha molti giovani, dare loro lavoro e speranza sarebbe il segnale di una rinascita, forse di una vera primavera che, per me, qui, deve ancora iniziare.
Avverte il bisogno di un aiuto internazionale, si potrebbe fare di più o c’è bisogno proprio di un cambiamento radicale interno?
R. – Occorrono entrambe le cose. La Tunisia è un Paese povero. E con la pandemia la situazione è diventata veramente critica e la Tunisia non ha aiuti o la capacità di accogliere e assistere tutti quanti. Non sappiamo neanche se e quando arriverà il vaccino, si sentono tante voci a riguardo. Certamente c’è bisogno dell’aiuto internazionale, anche perché la Tunisia ha un ruolo pilota nell’area e un’influenza importante nel Maghreb tale che quando la situazione va male da noi, tremano un pò tutti intorno. Però serve anche una rinascita, una presa di coscienza anche da parte dei giovani e del popolo tunisino: il futuro è nelle loro mani. A volte alcuni comportamenti mostrano forse il contrario, come quando impediscono alle raffinerie di petrolio di lavorare a e ai fosfati, che sono la nostra ricchezza, di arrivare fino al porto e le pompe sono chiuse a causa delle manifestazioni. Forse ci vorrebbe più determinazione da parte delle istituzioni. In questo periodo poi c’è stata una crisi di Governo, ora alcuni ministri sono stati cambiati e non sappiamo come andrà a finire. Dunque serve una presa di coscienza internazionale verso la Tunisia e soprattutto una presa di coscienza dei giovani sul futuro, loro e del Paese, il futuro è nelle loro mani e credo che non se ne abbia molta consapevolezza.
Come Chiesa quale contributo si può dare? Papa Francesco in una recente intervista ha parlato di un “noi” di cui ha bisogno il mondo, di pensare in questi termini, non di “io”. La Chiesa deve stare in questa realtà, testimoniando. Che cosa pensa di poter fare come Chiesa in Tunisia?
R. – La Chiesa fa parte innanzitutto di questo “noi” tunisino e qui, noi come chiesa e noi come cristiani, insistiamo nel dire che facciamo parte di questo popolo che sempre ci ha accolto e mai ci ha creato problemi. Non rispettare questo “noi” significherebbe tradire la nostra missione come Chiesa. Dunque tra le prime cose che facciamo, c’è il dare speranza alla gioventù, dire che il futuro è nelle mani del Paese e del popolo di cui la Chiesa è parte e lo facciamo soprattutto nelle scuole, con riunioni ed incontri. Il nostro lavoro con la gioventù è molto, molto importante. Ho l’impressione che la Tunisia, e non solo in questo periodo, stia prendendo coscienza, più che in passato, del valore della Chiesa. In diverse riunioni è sempre più richiesta la nostra partecipazione, e il nostro parere. Nella Chiesa si vede un faro che può indicare il cammino. In passato questo non esisteva ed oggi è un segno evidente che stiamo facendo un buon lavoro. Speriamo che il Signore lo benedica.