Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Lasciamoci evangelizzare “dall’umiltà del Bambino Gesù”, della povertà ed essenzialità “in cui il Figlio di Dio è entrato nel mondo”, consapevoli che “senza umiltà non si può incontrare Dio”, e “nemmeno il prossimo, il fratello e la sorella che ci vivono accanto”. L’umiltà, che è “la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità” è “capacità di saper abitare” “con realismo, gioia e speranza, la nostra umanità” amata e benedetta dal Signore. E’ comprendere che non dobbiamo vergognarci della nostra fragilità. Solo l’umiltà, infine, mette la Chiesa nella condizione giusta per affrontare il percorso sinodale “che ci vedrà impegnati per i prossimi due anni”, e permette alla Curia romana di dare testimonianza di una Chiesa “che si mette in ascolto dello spirito e pone il suo centro al di fuori da sé stessa”.
Oggi l’umiltà è spesso relegata nel moralismo, e perde forza
E’ questo il cuore del messaggio di Papa Francesco ai suoi collaboratori della Curia romana, incontrati stamattina nell’ Aula della Benedizione per il tradizionale scambio degli auguri natalizi. Che è sempre un modo per dire “la nostra fraternità” ma anche “momento di riflessione e di verifica per ciascuno di noi”. “Il mistero del Natale” esordisce il Papa è quello di Dio “che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà” in un tempo che “sembra aver dimenticato l’umiltà, o pare l’abbia semplicemente relegata a una forma di moralismo, svuotandola della dirompente forza di cui è dotata”. Ma la parola umiltà. Per Francesco, è quella che davvero può aiutare ad “esprimere tutto il mistero del Natale”. I Vangeli “ci parlano di uno scenario povero, sobrio, non adatto ad accogliere una donna che sta per partorire”.
Eppure il Re dei re viene nel mondo non attirando l’attenzione, ma suscitando una misteriosa attrazione nei cuori di chi sente la dirompente presenza di una novità che sta per cambiare la storia. L’umiltà è stata la sua porta d’ingresso e ci invita ad attraversarla.
La storia di Naaman il Siro, il generale lebbroso
Per aiutare a capire che l’umiltà “è il risultato di un cambiamento che lo Spirito stesso opera in noi attraverso la storia che viviamo”, il Pontefice porta l’esempio della vicenda di Naaman il Siro, raccontata dall’Antico Testamento, nel secondo Libro dei Re. Un valoroso generale che conviveva con fama, forza e gloria, ma anche con il dramma terribile della lebbra, che nascondeva sotto la sua possente armatura. Una contraddizione, spiega Papa Francesco, che spesso “ritroviamo nelle nostre vite: a volte i grandi doni sono l’armatura per coprire grandi fragilità”.
Naaman comprende una verità fondamentale: non si può passare la vita nascondendosi dietro un’armatura, un ruolo, un riconoscimento sociale. Arriva il momento, nell’esistenza di ognuno, in cui si ha il desiderio di non vivere più dietro il rivestimento della gloria di questo mondo, ma nella pienezza di una vita sincera, senza più bisogno di armature e di maschere.
Il coraggio di togliere le maschere, e mostrare la propria umanità
Così il generale cerca qualcuno che lo possa aiutare, e una schiava ebrea prigioniera di guerra gli parla “di un Dio che è capace di guarire simili contraddizioni”. Naaman si mette in viaggio e incontra il profeta Eliseo, che gli chiede “come unica condizione per la sua guarigione, il semplice gesto di spogliarsi e lavarsi sette volte nel fiume Giordano”. Non serve né oro né argento, perché “la grazia che salva è gratuita”. All’inizio il generale “resiste a questa richiesta, gli sembra troppo banale, troppo semplice”. Ma alla fine, convinto dai suoi servi, “si arrende, e con un gesto di umiltà ‘scende’, toglie la sua armatura, si cala nelle acque del Giordano” e guarisce. “La lezione è grande! – commenta il Papa – l’umiltà di mettere a nudo la propria umanità, secondo la parola del Signore, ottiene a Naaman la guarigione”.
La storia di Naaman ci ricorda che il Natale è il tempo in cui ognuno di noi deve avere il coraggio di togliersi la propria armatura, di dismettere i panni del proprio ruolo, del riconoscimento sociale, del luccichio della gloria di questo mondo, e assumere la sua stessa umiltà.
Siamo tutti lebbrosi bisognosi di essere guariti
L’esempio ancora più forte, per Francesco, è quello “del Figlio di Dio, che non si sottrae all’umiltà di ‘scendere’ nella storia facendosi uomo, facendosi bambino, fragile, avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia”. Perché “tolte le nostre vesti, le prerogative, i ruoli, i titoli, siamo tutti dei lebbrosi bisognosi di essere guariti. Il Natale è la memoria viva di questa consapevolezza”. Così il Pontefice ricorda la pericolosa tentazione, già richiamata più volte “della mondanità spirituale”, che è difficile da smascherare, “perché coperta da tutto ciò che normalmente ci rassicura: il nostro ruolo, la liturgia, la dottrina, la religiosità”.
No ai maestri spirituali che perdono il contatto col popolo che soffre
Qui Papa Francesco sottolinea quanto scritto nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, sulla “vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere”. La Chiesa non ha bisogno, ribadisce, di “maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno”, che coltivano la loro “immaginazione senza limiti” e perdono “il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele”.
L’umiltà è la capacità di saper abitare senza disperazione, con realismo, gioia e speranza, la nostra umanità; questa umanità amata e benedetta dal Signore. L’umiltà è comprendere che non dobbiamo vergognarci della nostra fragilità. Gesù ci insegna a guardare la nostra miseria con lo stesso amore e tenerezza con cui si guarda un bambino piccolo, fragile, bisognoso di tutto.
Le rassicurazioni, frutto perverso della mondanità spirituale
Senza umiltà cercheremo rassicurazioni, ma queste, per il Papa, “sono il frutto più perverso della mondanità spirituale, che rivela la mancanza di fede, di speranza e di carità, e diventano incapacità di saper discernere la verità delle cose”. Naaman ha il coraggio di lasciare la sua armatura nella quale la lebbra lo sta divorando e “cerca ciò che possa salvarlo e non ciò che lo gratifica nell’immediato”.
Il superbo non crea, l’umile ricorda e genera
Francesco prosegue ricordando che “il contrario dell’umiltà è la superbia”, che il profeta Malachia descrive come paglia, senza radice né germoglio. “Così il superbo, rinchiuso nel suo piccolo mondo, non ha più passato né futuro, non ha più radici né germogli”, mentre l’umile vive “costantemente guidato da due verbi: ricordare e generare, e così vive la gioiosa apertura della fecondità”. Ricordare è un “gesto interiore attraverso il quale riportiamo al cuore costantemente ciò che ci ha preceduti, ciò che ha attraversato la nostra storia, ciò che ci ha condotti fin qui”. Ma perchè “il ricordare non diventi una prigione del passato”, abbiamo bisogno di generare.
L’umile genera, invita e spinge verso ciò che non si conosce. Invece il superbo ripete, si irrigidisce e si chiude nella sua ripetizione, si sente sicuro di ciò che conosce e teme il nuovo perché non può controllarlo, se ne sente destabilizzato… perché ha perso la memoria.
Ritrovare il rapporto giusto con radici e germogli
L’umile, aggiunge il Pontefice, “accetta di essere messo in discussione, si apre alla novità e lo fa perché si sente forte” delle sue radici. A differenza del superbo, sa che né i suoi meriti né le sue “buone abitudini” sono il principio e il fondamento della sua esistenza: “perciò è capace di avere fiducia”.
Tutti noi siamo chiamati all’umiltà perché siamo chiamati a ricordare e a generare, siamo chiamati a ritrovare il rapporto giusto con le radici e con i germogli. Senza di essi siamo ammalati, e destinati a scomparire. Gesù, che viene nel mondo attraverso la via dell’umiltà, ci apre una strada, ci indica un modo, ci mostra una meta.
Senza umiltà non si incontra ne’ Dio ne’ i fratelli
Papa Francesco ribadisce quindi che “se è vero che senza umiltà non si può incontrare Dio, e non si può fare esperienza di salvezza”, è altrettanto vero che “non si può incontrare nemmeno il prossimo, il fratello e la sorella che ci vivono accanto”. E qui si innesta lo sguardo del Papa sul percorso sinodale iniziato lo scorso 17 ottobre e “che ci vedrà impegnati per i prossimi due anni”. Anche in questo caso, per il Papa “solo l’umiltà può metterci nella condizione giusta per poterci incontrare e ascoltare, per dialogare e discernere”. Per fare esperienza dello Spirito che ci unisce come Figli di un solo Dio, Padre di tutti, non dobbiamo rimane chiusi nelle nostre convinzioni, nel guscio del nostro “solo sentire e pensare”. E “Tutti” è una parola che non si può fraintendere.
Il clericalismo che come tentazione serpeggia quotidianamente in mezzo a noi ci fa pensare sempre a un Dio che parla solo ad alcuni, mentre gli altri devono solo ascoltare ed eseguire. Il Sinodo è l’esperienza di sentirci tutti membri di un popolo più grande: il Santo Popolo fedele di Dio.
Umiltà per avviare il percorso sinodale della Chiesa
Sarebbe sbagliato, ammonisce ancora Francesco, “pensare che il Sinodo sia un evento riservato alla Chiesa come entità astratta, distante da noi. La sinodalità è uno stile a cui dobbiamo convertirci innanzitutto noi che siamo qui”, chiamati al servizio alla Chiesa universale attraverso il lavoro nella Curia romana. Una Curia che “non è solo uno strumento logistico e burocratico per le necessità della Chiesa universale, ma è il primo organismo chiamato alla testimonianza”. Quindi un organismo che acquista “autorevolezza ed efficacia” quando assume in prima persona le sfide della conversione sinodale. “L’organizzazione che dobbiamo attuare non è di tipo aziendale, ma di tipo evangelico”.
Per questo, se la Parola di Dio ricorda al mondo intero il valore della povertà, noi, membri della Curia, per primi dobbiamo impegnarci in una conversione alla sobrietà. Se il Vangelo annuncia la giustizia, noi per primi dobbiamo cercare di vivere con trasparenza, senza favoritismi e cordate. Se la Chiesa percorre la via della sinodalità, noi per primi dobbiamo convertirci a uno stile diverso di lavoro, di collaborazione, di comunione. E questo è possibile solo attraverso la strada dell’umiltà.
Partecipazione, comunione e missione anche per la Curia
Il Pontefice ricorda quindi le tre parole-chiave utilizzate all’apertura dell’assemblea sinodale: “partecipazione, comunione e missione”, che sono tre modi per mettere in pratica “la via dell’umiltà”. Prima la partecipazione, che “dovrebbe esprimersi attraverso uno stile di corresponsabilità”. Sarebbe importante, per Papa Francesco, pur nella “diversità di ruoli e ministeri” che ognuno “si sentisse partecipe, corresponsabile del lavoro”. E sottolinea che rimane “sempre colpito quando nella Curia incontro la creatività”.
Comunione è anche pregare e celebrare insieme
Poi la comunione, che “non si esprime con maggioranze o minoranze, ma nasce essenzialmente dal rapporto con Cristo”.
Molti di noi lavorano insieme, ma ciò che fortifica la comunione è poter anche pregare insieme, ascoltare insieme la Parola, costruire rapporti che esulano dal semplice lavoro e rafforzano i legami di bene aiutandoci a vicenda. Senza questo rischiamo di essere soltanto degli estranei che collaborano, dei concorrenti che cercando di posizionarsi meglio.
Si cercano complicità “per interessi personali dimenticando la causa comune che ci tiene insieme”. Ma la complicità “crea divisioni, fazioni e nemici” mentre la collaborazione “esige la grandezza di accettare la propria parzialità e l’apertura al lavoro in gruppo, anche con quelli che non la pensano come noi”. L’atteggiamento di servizio, prosegue il Papa, esige “la magnanimità e la generosità per riconoscere e vivere con gioia la ricchezza multiforme del Popolo di Dio; e senza umiltà questo non è possibile”.
Missione è andare incontro a tutte le povertà
La terza parola è missione, che “è ciò che ci salva dal ripiegarci su noi stessi”. Chi è ripiegato su sé stesso, e qui Francesco cita ancora l’Evangelii Gaudium “guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza”. Invece, solo “un cuore aperto alla missione fa sì che tutto ciò che facciamo ad intra e ad extra sia sempre segnato dalla forza rigeneratrice della chiamata del Signore”. E dalla passione per i poveri, cioè per coloro che ‘mancano’ di qualcosa. “non solo in termini materiali, ma anche spirituali, affettivi, morali”.
La Chiesa è invitata ad andare incontro a tutte le povertà, ed è chiamata a predicare il Vangelo a tutti perché tutti, in un modo o in un altro, siamo poveri, siamo mancanti. Ma anche la Chiesa va loro incontro perché essi ci mancano: ci manca la loro voce, la loro presenza, le loro domande e discussioni.
Lasciamoci tutti evangelizzare dall’umiltà del Natale
Partecipazione, missione e comunione, sottolinea verso la conclusione del suo discorso il Pontefice, “sono i caratteri di una Chiesa umile, che si mette in ascolto dello Spirito e pone il suo centro fuori da sé stessa”. Che come diceva Henri de Lubac, “Agli occhi del mondo ha sempre l’aspetto della schiava. Esiste quaggiù in forma di serva”. L’augurio finale di Papa Francesco a tutta la Curia romana “e a me per primo”, è quello “di lasciarci evangelizzare dall’umiltà del Natale, del presepe, della povertà ed essenzialità in cui il Figlio di Dio è entrato nel mondo”. Persino i Magi, sottolinea, che certamente venivano “da una condizione più agiata di Maria e di Giuseppe o dei pastori di Betlemme”, quando si trovano “al cospetto del bambino si prostrano”, in un gesto che non è solo adorazione, ma “è un gesto di umiltà”. I Magi, infatti, “si mettono all’altezza di Dio prostrandosi sulla nuda terra”.
Solo se siamo al servizio, saremo utili a tutti
E’ la stessa discesa “che Gesù compirà l’ultima sera della sua vita terrena”, quando si china a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli, spiegando poi che “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi”.
Cari fratelli e sorelle, facendo memoria della nostra lebbra, rifuggendo le logiche della mondanità che ci privano di radici e di germogli, lasciamoci evangelizzare dall’umiltà del Bambino Gesù. Solo servendo e solo pensando al nostro lavoro come servizio possiamo davvero essere utili a tutti. Siamo qui – io per primo – per imparare a stare in ginocchio e adorare il Signore nella sua umiltà, e non altri signori nella loro vuota opulenza.
Il Natale ci dice: l’umiltà è la grande condizione della fede
Anche noi, conclude il Papa “siamo come i pastori, siamo come i Magi, siamo come Gesù. Ecco la lezione del Natale: l’umiltà è la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità”. Possa il Signore farcene dono, e se ancora non lo possediamo, ce ne ispiri il desiderio, perché “ciò che non abbiamo, possiamo cominciare almeno a desiderarlo. E il desiderio è già lo Spirito all’opera dentro ciascuno di noi”.