Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Mariamie, Thamara, Maccolins, Rozh… Gli occhi e i volti dei migranti, le loro storie di emarginazione, rifiuto e paura, le ferite provocate dall’odio che semina veleno dallo Sri Lanka al Camerun fino all’Iraq, segnano l’atto conclusivo del Papa a Cipro. Dall’isola del Mediterraneo Francesco non si congeda infatti, come di consueto, con una Messa (l’ha celebrata questa mattina nel GPS Stadium) ma con la preghiera ecumenica nella Chiesa parrocchiale di Santa Croce, edificio sacro costruito nel 1900 con l’aiuto della famiglia reale spagnola, collocato al limite della “linea blu” che traccia il confine tra le “due” Nicosia. Dentro alla Chiesa è presente, già da ore, con mascherine e dopo aver mostrato il green pass, una nutrita rappresentanza di quelle centinaia di migliaia di profughi, triplicatisi nell’isola negli ultimi anni, in attesa di raggiungere l’Europa. Idealmente sono presenti con il Papa tutti quei rifugiati rapiti, venduti, sfruttati, torturati, respinti e rimandati indietro in quei “lager” che – dice Francesco in un’appassionata digressione a braccio del suo discorso – ricordano i campi di sterminio dei nazisti e di Stalin. Tragedie che avvengono sotto i nostri occhi ai quali, purtroppo, constata Francesco, ci siamo abituati.
Carne ferita
Quello nella Chiesa della Santa Croce è l’ultimo incontro del Papa a Cipro ma il primo con la “carne ferita” che nei giorni scorsi Francesco aveva detto di voler toccare recandosi in questi luoghi di storia e civiltà, crocevia di incontri e culture, ma anche di frammentazione e disperazione di centinaia di persone in fuga da Africa e Medio Oriente, che approda alle coste cipriote attraversando la Turchia. Sempre se ha la fortuna di farlo e non si trova davanti a un “filo spinato”, simbolo dell'”odio”. È significativo, infatti, l’augurio che il Papa esprime per il Paese: “Possa quest’isola, segnata da una dolorosa divisione, diventare con la grazia di Dio laboratorio di fraternità”. E la fraternità si realizza e matura percorrendo due strade:
La prima è l’effettivo riconoscimento della dignità di ogni persona umana: questo è il fondamento etico, un fondamento universale che è anche al centro della dottrina sociale cristiana. La seconda condizione è l’apertura fiduciosa a Dio Padre di tutti; e questo è il ‘lievito’ che siamo chiamati a portare come credenti
Non stranieri ma concittadini
Non sono ideali e utopie quelle proposte dal Papa, ma “passi concreti” per passare “dal conflitto alla comunione, dall’odio all’amore”. L’amore di cui parlano i migranti nelle loro testimonianze, pronunciate con un filo di voce e qualche lacrima in cattedrale, dinanzi al Papa, ai patriarchi Pierbattista Pizzaballa e Béchara Raï, e ai rappresentanti delle diverse confessioni cristiane presenti a Cipro.
Francesco fa sue le parole di questi uomini e donne considerati, anche dopo anni, ξένοι (stranieri): si rivolge a ognuno di loro, li chiama per nome e dai loro racconti trae spunto per il suo discorso. “Le vostre testimonianze le avevo ricevute in anticipo circa un mese fa e mi avevano colpito tanto, e anche oggi mi hanno commosso. Ma non è solo emozione, è molto di più: è la commozione che viene dalla bellezza della verità”, esordisce il Pontefice. E ricorda le parole di san Paolo: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”. Un Dio che, sottolinea Francesco, “sogna un mondo di pace, in cui i suoi figli vivono come fratelli e sorelle”. “Dio vuole quello, Dio sogna questo. Siamo noi a non volerlo”.
Gli interessi ci rendono schiavi
“Le vostre testimonianze sono come uno ‘specchio’ per noi, comunità cristiane”, aggiunge il Papa, citando Thamara, venuta dallo Sri Lanka, che poco prima affermava: “Spesso mi viene chiesto chi sono”. Anche a noi a volte viene posta questa domanda: “Chi sei tu?”, osserva il Pontefice. ”La brutalità della migrazione mette in gioco la propria identità” e “purtroppo spesso si intende dire: ‘Da che parte stai? A quale gruppo appartieni?’. Ma come ci hai detto tu, non siamo numeri, individui da catalogare; siamo fratelli, amici, credenti, prossimi gli uni degli altri”.
Ma quando gli interessi di gruppo o gli interesi politici, anche delle nazioni, spingono, tanti di noi rimangono da una parte, senza volerlo, schiavi. Perché l’interesse sempre schiavizza, sempre crea schiavi. L’amore che è largo, che è contrario all’odio, l’amore ci fa liberi
L’odio inquina le relazioni tra cristiani
“E quando tu, Maccolins – prosegue il Papa rivolgendosi a un giovane del Camerun – dici che nel corso della tua vita sei stato ‘ferito dall’odio’, parli di questo: delle ferite degli interessi. E ci ricordi che l’odio ha inquinato anche le nostre relazioni tra cristiani”. Questo “lascia il segno, un segno profondo, che dura a lungo”.
È un veleno da cui è difficile disintossicarsi. L’odio è una mentalità distorta, che invece di farci riconoscere fratelli, ci fa vedere come avversari, come rivali, come un oggetto da vendere e sfruttare.
Camminare insieme
Francesco volge poi lo sguardo verso Rozh, venuta dall’Iraq: “Quando tu dici che sei ‘una persona in viaggio’, ci ricordi che anche noi siamo comunità in viaggio, siamo in cammino dal conflitto alla comunione”. “Su questa strada, che è lunga ed è fatta di salite e discese, non devono farci paura le differenze tra noi, ma piuttosto le nostre chiusure e i nostri pregiudizi, che ci impediscono di incontrarci veramente e di camminare insieme”, afferma il Papa.
In viaggio verso la piena unità
Lui, il Signore Gesù, dice il Papa, “ci viene incontro con il volto del fratello emarginato e scartato. Con il volto del migrante disprezzato, respinto, ingabbiato… Ma anche del migrante che è in viaggio verso qualcosa, verso una speranza, verso una convivenza più umana”. E così Dio “chiama anche noi a non rassegnarci a un mondo diviso, a comunità cristiane divise, ma a camminare nella storia attratti dal sogno di Dio: un’umanità senza muri di separazione, liberata dall’inimicizia, senza più stranieri ma solo concittadini”.
Un’isola generosa
Francesco ringrazia tutti coloro che lavorano per realizzare questo “sogno”, ma al contempo afferma: “Pensare che questa isola è generosa ma non può fare tutto, no? Perché il numero di gente che arriva è superiore alle proprie possibilità di inserire, di integrare, di accompagnare, di promuovere… La sua vicinanza geografica facilita questo, ma non è facile. Dobbiamo capire i limiti i governanti di quest’isola sono attaccati. Ma sempre c’è in questa isola, e l’ho visto, nei responsabili che ho visitato, di diventare con la grazia di Dio, laboratorio di fraternità”.
Fratelli e sorelle rimasti per strada
Arriva il momento del congedo, ma il Papa vuole aggiungere un’ultima sua riflessione, discostandosi completamente dal discorso scritto. È la denuncia delle condizioni disumane in cui vivono migliaia di migranti in tutto il mondo: “Lo dico perché è responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi”, afferma. La sua critica è contro trafficanti e torturati ma, al contempo, contro un mondo che si è “abituato” a queste tragedie: essa nasce proprio “ascoltando” la voce dei migranti e “guardando” i loro volti. “Voi siete arrivati qui, ma quanti delle vostre fratelli e delle vostre sorelle sono rimasti per strada? Quanti disperati iniziano il cammino in condizioni molto difficili, anche precarie, e non hanno potuto arrivare… Possiamo parlare di questo mare che è diventato un cimitero. Guardando voi, guardo le sofferenze del cammino, tante che sono stati rapiti, venduti, sfruttati, ancora sono in cammino… È la storia di una schiavitù, una schiavitù universale”.
Veri lager sotto i nostri occhi
“Il peggio – accusa il Papa – è che ci stiamo abituando a questo: ‘Ah oggi, sì, è affondato un barcone, tanti dispersi’. Ma guarda che questo abituarsi è una malattia grave e non c’è antibiotico contro questa malattia. Dobbiamo andare contro questo vizio di abituarci a queste tragedie che leggiamo nei telegiornali e altri media. Guardando voi, penso a tanti che sono dovuti tornare indietro, perché respinti e sono finiti nei lager, veri lager, dove le donne sono vendute, gli uomini schiavizzati torturati”. Spesso, osserva Francesco, interrotto dagli applausi, ci domandiamo come sia stato possibile che fossero stati costruiti i lager del secolo scorso, ma lo stesso – afferma – “succede oggi nelle coste vicine…”.
“Ho guardato alcune testimonianze di questo: posti di tortura, di vendita di gente, questo lo dico perché è responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi”, dice ancora il Papa.
I fili spinati, guerra dell’odio
Un’ultima parola il Papa dice di non poterla tacere: “I fili spinati… Qui ne vedo uno. Questa è una guerra dell’odio che vive un Paese. I fili spinati in altre parti si fanno per non lasciare entrare i rifugiati. Quello che viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, che sta fuggendo dall’odio, trova davanti a un odio che si chiama filo spinato. Che il Signore ci svegli la coscienza di tutti noi davanti a queste cose. E scusatemi – conclude – se ho detto le cose come sono, ma non possiamo tacere”.
In Italia 12 rifugiati
Alcuni dei migranti incontrati oggi dal Papa a Nicosia saranno trasferiti nelle prossime settimane in Italia. Dodici in totale che saranno accolti, con il sostegno della Santa Sede, come “segno della sollecitudine del Santo Padre verso famiglie e persone migranti”, commenta il portavoce vaticano Matteo Bruni. “Un gesto umanitario” che proseguirà idealmente il viaggio apostolico a Cipro.