Fausta Speranza – Città del Vaticano
475 imputati, poi scesi a 460 nel corso del processo, 200 avvocati difensori. Le accuse: crimini di mafia – ma il nome esatto dell’organizzazione criminale è “Cosa nostra” – tra cui omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione, associazione mafiosa. Numeri che suggerirono l’espressione giornalistica di maxiprocesso che generalmente indica solo il processo di primo grado, durato fino al 16 dicembre 1987. Tale processo si concluse con 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. Dopo un secondo articolato iter processuale queste condanne furono poi quasi tutte confermate in terzo grado dalla Cassazione. La data della sentenza finale della Corte di Cassazione è il 30 gennaio 1992.
I fatti e la storia
Secondo quanto emerso dagli atti giudiziari, all’inizio degli anni ottanta a Palermo imperversava il duro scontro tra due fazioni del gruppo mafioso denominato Cosa nostra: la fazione dei Corleonesi e quella guidata da Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, (di cui faceva parte anche Tommaso Buscetta, scappato in Brasile) si contendevano il dominio sul territorio, al punto che tra il 1981 e il 1983 vennero commessi circa 600 omicidi.
Anche numerosi uomini delle istituzioni italiane, che avevano tentato di combattere la mafia attraverso nuove leggi, indagini e azioni di Polizia, caddero sotto i colpi dell’organizzazione criminale; tra questi, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il segretario provinciale democristiano Michele Reina, il commissario Boris Giuliano, il giornalista Mario Francese, il candidato a giudice istruttore di Palermo Cesare Terranova, il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, il procuratore Gaetano Costa, il segretario regionale siciliano Pio La Torre.
L’impegno di Rocco Chinnici
Il primo a pensare che presso l’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo potesse essere istituita una squadra di giudici istruttori che avrebbero lavorato in gruppo fu il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Nel luglio 1982 le indagini del capitano dei carabinieri Tito Baldo Honorati e del commissario Ninni Cassarà avevano dato origine al cosiddetto “Rapporto dei 162”, la prima grossa inchiesta sulla fazione dei Corleonesi che inquadrava sia i gruppi “perdenti” che i “vincenti” della guerra di mafia allora in corso, che viene considerata l’embrione dell’ipotesi investigativa alla base del Maxiprocesso. Il rapporto venne trasmesso al procuratore capo Vincenzo Pajno (che lo assegnò ai sostituti Vincenzo Geraci e Alberto Di Pisa e all’Ufficio istruzione, dove Chinnici lo affidò ai giudici Giovanni Falcone e Domenico Signorino, che nel giro di qualche mese iniziarono a lavorare fianco a fianco con i colleghi della Procura Agata Consoli e Giuseppe Ayala, titolari delle delicate inchieste sull’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e altre.
Il pool antimafia
Quando nel 1983 Cosa nostra uccise anche Chinnici e il giudice chiamato a sostituirlo, Antonino Caponnetto, decise di mantenere e ampliare l’organizzazione dell’ufficio voluta dal predecessore. Caponnetto, considerando anche il lavoro fatto contro il terrorismo, decise di istituire presso l’ufficio istruzione un vero pool antimafia, ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso. Caponnetto scelse Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Questi avrebbero svolto tutte le indagini su Cosa nostra, coadiuvati dal sostituto procuratore Giuseppe Ayala e tre colleghi, il cui compito era inoltre quello di portare a processo come pubblici ministeri i risultati delle indagini del pool e ottenere le condanne.
Lo slancio che scosse le coscienze
Nella sua requisitoria il pubblico ministero Domenico Signorino, il 30 marzo 1987, disse: “Questo è un processo come tutti gli altri, per quanto smisurato. Ciò che vi chiedo non è la condanna della mafia, già scritta nella storia e nella coscienza dei cittadini, ma la condanna dei mafiosi che sono raggiunti da certi elementi di responsabilità”.
Per capire innanzitutto l’atmosfera al momento dell’apertura del maxi processo a Palermo, abbiamo intervistato il vicedirettore della rai Radio televisione italiana Gianfranco D’Anna, che all’epoca era l’inviato nella cosiddetta sala bunker dell’emittente di Stato:
Gianfranco D’Anna racconta di una giornata plumbea che rispecchiava l’atmosfera di grandi incognite. Da una parte, molte aspettative, dall’altra tanti timori per una presa di posizione contro un’organizzazione criminale che permeava settori impensabili del vivere civile. Si avvertiva – racconta – uno slancio senza precedenti da parte di un gruppo di magistrati che reagivano alla violenza inaudita per le strade e contro alte figure di uomini di Stato. D’Anna conferma che, da allora, l’idea che la gente aveva dei poteri che controllavano il territorio facendo favori ma seminando violenza, cambiò decisamente. Ci fu una presa d’atto di consapevolezza che poi, però, solo alla morte di Falcone e Borsellino, divenne davvero mobilitazione popolare. D’Anna sottolinea come siano cambiati i mezzi tecnologici da allora, rciordando che tutti i riscontri non potevano certo allora avvalersi del supporto di algoritmi: erano piuttosto frutto di un lavoro certosino manuale.
Pentitismo e dissociazione civile
D’Anna racconta come i due giudici siciliani abbiano fatto leva sui cosiddetti pentiti ricordando che Falcone non amava che si parlasse di pentitismo: voleva parlare di dissociazione. D’Anna spiega che allora non si trattava di vera e propria dissociazione in quanto i cosiddetti pentiti che collaborarono con la giustizia facevano parte di una fazione perdente che voleva colpire l’altra fazione. Ma D’Anna afferma che il tutto però ha dato vita a un processo di dissociazione più ampio e capillare che ha coinvolto la società civile. Gianfranco D’Anna riflette anche sul cambiamento dei media: senza il web e i social 35 anni fa il giornalismo era diverso. D’Anna mette in guardia sui rischi di perdere l’informazione seria in quello che definisce lo “tsunami” informativo dato dalla rete e che corre sui social media.
La testimonianza indelebile di Falcone e Borsellino
D’Anna spiega che il primo motivo di speranza è dato dal fatto che l’impegno anche di tipo proprio investigativo che hanno messo in campo il pool antimafia e in particolare il giudice Falcone rimane tutt’oggi come esempio e viene insegnato nelle accdemie investigative. E poi D’Anna si commuove ricordando l’intervista che realizzò con il giudice Falcone a poco meno di un anno dalla sua barbara uccisione, avvenuta il 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci con una bomba composta da 500 chilogrammi di tritolo, e che costò la vita anche alla moglie il magistrato Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Quell’intervista è rimasta storica, è il documento più conosciuto e apprezzato tra studenti. In quella intervista, Falcone difende l’idea di speranza, pur nell’evidenza del susseguirsi di atti criminali e di colpi al cuore delle istituzioni e di fronte alla presa d’atto di gangli di corruzione a tanti livelli che non aiutavano il cambiamento. Falcone afferma che la mafia è un’invenzione degli uomini e come tutte le cose degli uomini ha un inizio e una fine.
Globalizzazione e mafie
Se il colpo inferto a Cosa nostra a partire dal maxiprocesso è stato indubbio, oggi purtroppo si deve ancora parlare di organizzazioni criminali e di mafie che purtroppo hanno saputo cavalcare la globalizzazione, ricorda D’Anna. In particolare, le cronache raccontano del potere acquisito dalla n’drangheta calabrese in traffici di stupefacenti e non solo, che vanno dall’America Latina al Nord Europa. E la caratteristica denunciata dalle forze inquirenti di recente è sempre di più la capacità di pervasività in settori della burocrazia e dei servizi, la mafia dai cosiddetti “colletti bianchi”. D’Anna ricorda quanto sia “fondamentale” oggi l’appello che il Papa ripete contro la corruzione, che è il primo pertugio attraverso cui si insinuano e si rafforzano anche le moderne mafie.