“Con i miei occhi”, alla Biennale apre il padiglione della Santa Sede

Vatican News

La cerimonia di inaugurazione si è svolta nell’orto della casa di reclusione femminile della Giudecca, che Francesco visiterà il 28 aprile. Si tratta di un lavoro di incontro tra diversi artisti e le detenute del carcere che per il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero della Cultura, è espressione di reciprocità e trasformazione, vie di speranza

Benedetta Capelli – Città del Vaticano

Per arrivare all’orto della Giudecca bisogna percorrere un corridoio con mura altissime da un lato e le inferriate delle finestre dall’altro. Ci sono dei bassorilievi in pietra lavica dell’artista Simone Fattal nei quali sono incise parole che fanno male: “Vorrei isolarmi, rannicchiarmi nel petto, non esiste qui un’armatura…”. Il dolore in poche frasi che sembra stridere con il sole che illumina i filari di insalata, i pomodori e le serre, frutto del lavoro delle detenute che anche nella cura della terra trovano un modo per ripartire. E’ in questo scenario che il cardinale José  Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura, racconta il padiglione della Santa Sede, nell’ambito della 60.ma edizione della Biennale di Venezia, e che si snoda negli ambienti del carcere, un tempo convento delle convertite nel quale si ospitavano prostitute che avevano lasciato quella vita ed erano affidate alla cura della Chiesa. “Con i miei occhi” è il titolo dell’allestimento, frutto di un incontro profondamente umano tra gli artisti e le donne che qui scontano la loro pena definitiva.

Tolentino de Mendonça: un padiglione che apre all’umanità

“Gli artisti sono venuti qui a mani vuote – spiega il porporato – e hanno raccolto le storie di vita, le immagini, le grida di dolore, gli spazi vuoti e i desideri che nascono in questi cuori che, con l’aiuto dell’arte, sono diventati una grande parabola”. Queste donne detenute, spiega il prefetto, vaticano “con le loro storie sono diventate la parabola che racconta tutta la vita”. Il dolore i sogni sono gli stessi di tutti. Il cardinale Tolentino de Mendonça sottolinea ancora come la scelta della Giudecca sia stata “destabilizzante” anche per l’arte contemporanea e possibile grazie alla complicità dei curatori e dei responsabili della casa di reclusione. “Ho cambiato le parole vedendo le opere – confessa – perché emerge la componente umana. Con l’aiuto dell’arte abbiamo capito che la grande sfida è trovare nuove parole, nuove visioni del mondo che renda giustizia all’umano”. E’ la strada per contrastare la cultura dello scarto e apre ad una cultura “che possa servire la persona con speranza anche nella vulnerabilità”. L’arte contemporanea, conclude, può essere un motore che segna il desiderio di nuove parole, nuovi cammini per arrivare alla fratellanza.

La voce di Giulia

A prendere la parola e illustrare il padiglione anche i curatori del padiglione, Bruno Racine e Chiara Parisi. Lei ha offerto il suo spazio di intervento a una lettera scritta da Giulia, una detenuta, nella quale racconta il lavoro fatto, presentando così il percorso espositivo. Parla di emozione, entusiasmo e gioia per quanto realizzato, di “un’unione unanime e all’unisono” e della fiducia nel futuro perché “nulla si crea e nella si distrugge” e questo è un percorso che dovrà per forza di cose continuare perché – aggiunge Giulia – anche un incontro come questo trasforma “donne che hanno sbagliato in risorse consapevoli”. Sono pensieri accolti con un filo di commozione e con applausi.

L’occhio sbarrato

Anche il ministro della Giustizia italiano, Carlo Nordio, presente assieme al collega della Cultura, Gennaro Sangiuliano, si sofferma sull’esperienza costruttiva delle detenute e sull’opera d’arte di Claire Fontaine, il collettivo artistico franco-palermitano, un occhio sbarrato, sguardo sbagliato o vietato, impossibilità di guardare all’esterno che diventa così esclusione ma anche incapacità per chi è fuori di vedere questo luogo dentro.

Manuela, guida speciale

Mentre si formano i primi gruppi per visitare al meglio il padiglione, vestiti metà bianchi e neri con un fiore di stoffa dai colori sgargianti cominciano ad apparire tra il verde dell’orto. Sono donne curate, truccate, sorridenti e molto impegnate a sistemare i tavoli del buffet abbelliti da vasi di lavanda. Altre invece iniziano ad accompagnare i visitatori e a spiegare in maniera attenta chi sono gli artisti che hanno partecipato alla mostra. “Nessuna ripresa”: è l’ordine degli agenti penitenziari, in maggioranza ragazze giovani e davvero belle. Le guide sono donne detenute, condannate in via definitiva. Manuela, capelli scuri e nonna orgogliosa, è la più spigliata, racconta che le mancano due anni per uscire dalla Giudecca, un luogo, spiega, capace di offrire nuove possibilità, speranza e forza anche se “entrare a 50 anni in una prigione è davvero dura”. “Ho studiato le vite di tutti gli artisti”, aggiunge con una punta di orgoglio.

Un percorso ricco

L’esposizione parte dall’esterno con la facciata della Chiesa di santa Maddalena e l’opera che la ricopre di Maurizio Cattelan. Si tratta di piedi nudi e sporchi che richiamano Caravaggio e Mantegna ma che sono anche un richiamo all’infanzia dell’artista: i piedi di un papà umile e lavoratore. All’interno del carcere le foto riviste e ripensate da Claire Tabouret, sono le pose più preziose per le detenute, immagini del passato come quella di una bambina che inizia a camminare, è la stessa Manuela – la guida – che ha offerto quanto di più caro aveva. Lei con la mamma che la accoglie nei passi incerti. Il percorso prosegue nella cappella sconsacrata con l’artista brasiliana Sonia Gomes che ha appeso i vestiti delle detenute raccolti in intrecci colorati, ci sono nella caffetteria, le opere di Corita Kent, artista statunitense conosciuta anche per il suo passato da consacrata e per questo conosciuta come la “suora della pop art”. Nel cortile dove le detenute passano la loro ora d’aria la scritta “Siamo con voi nella notte”, un modo per ricordare che il mondo fuori non dimentica chi è tra le sbarre. Da vedere, perché intenso e commovente, il corto che vede protagonista Zoe Saldana, girato dal marito Marco Perego. Dodici minuti di racconto in bianco e nero con le detenute protagoniste, i volti segnati dalla rassegnazione, i volti tatuati, i volti inespressivi e tragici. Una storia che colpisce e che si comprende essere un lavoro di relazione e confronto tra mondi diversi ma non distanti. “Tornavamo a casa dalle riprese – racconta a Radio Vaticana – Vatican News Marco Perego – sempre con tanti braccialetti che ci regalavano le ospiti del carcere e con tanti pensieri scritti”.

“Forza”

Da una finestra si scorgono i volti di alcune donne, treccine colorate, panni stesi ad asciugare, una voce che invoca libertà perché “il carcere è brutto”. Nel lasciare questo luogo, molte donne che sono a passeggiare nel cortile salutano con gioia queste presenze inusuali. “Forza”: risponde qualcuno. E’ l’ultima voce che si sente non appena si chiude a chiave il pesante cancello di questa realtà che l’arte sublima perché rende tutte le donne libere nel cuore e solide nella loro ritrovata dignità.